A tre settimane dall’inizio delle manifestazioni in Spagna del così detto movimento degli indignados o “movimento del 15-M” ci si continua a chiedere da dove sia nato, quali siano i suoi tratti fondamentali e dove voglia andare a finire.
L’assemblea di manifestanti accampati a Barcellona ha deciso lunedì scorso, per 700 voti contro 20, di ritirarsi dalla piazza e di sostituire il modello dell’accampamento con quello di assemblee tenute durante la giornata perché, come ha detto uno dei manifestanti, “la convivenza negli accampamenti produce problemi e litigi”. A Madrid, invece, le pressioni di certi gruppi impediscono ancora la dissoluzione di un’assemblea che, stanca dopo tre settimane, cerca di reinventarsi. Le dispute interne dell’ultima settimana –le accuse di aggressione sessuali dentro l’accampamento o il divieto di esprimere le proprie opinioni personali al di fuori dei portavoce ufficiali del movimento sono solo alcuni esempi- hanno debilitato potentemente la forza dei primi dieci giorni. Forse è il momento di cercare di mettere alcune idee in chiaro.
Tante sono state le speculazioni sull’origine spontanea del movimento e sulla provenienza di tutti quelli che riempivano la Puerta del Sol nel centro di Madrid e le prime pagine dei giornali nel mondo intero. Sebbene sia certo che tra i 15.000 manifestanti che hanno assecondato il movimento nei primi giorni (di cui restano circa 500) c’erano persone di provenienze molto variegate e che tanti dei presenti fossero persone semplici insoddisfatte di un modello sociale e politico nel quale non si sentono protagonisti, sarebbe ingenuo pensare che questo sia stato un movimento spontaneo, apolitico e mosso unicamente da un desiderio di protagonismo ingenuo e positivo. È stata la presenza di un primo nucleo a canalizzare e calamitare l’insoddisfazione di tanti che, senza quel richiamo, sarebbero rimasti a casa.
Il nucleo forte del movimento non coincide, come si è visto dopo, con quelle migliaia di persone –ormai di nuovo a casa loro dopo un attimo di fittizio protagonismo cittadino – mosse dalla presenza del primo nucleo, ma piuttosto con diversi gruppi con degli obiettivi ben chiari e provenienti da settori della sinistra universitaria e da movimenti contestatari anarchici e antisistema.



Sarebbe troppo un caso che, dopo quattro anni di sanguinante crescita dei tassi di disoccupazione, la spontaneità avesse deciso di svegliarsi proprio una settimana prima delle elezioni che dovevano cominciare a scavare la tomba del modello Zapatero
Tra i diversi tratti presenti nei loro documenti –molto più apertamente rintracciabili nei loro discorsi e in alcune dei loro striscioni- potremmo identificarne due come fondamentali:
1) Sorprende molto, in primo luogo, il fatto che le proteste siano state assai accuratamente indirizzate contro una vaghissima idea di “sistema”. Un movimento che richiama l’incarnazione della politica di fronte all’astrazione e la lontananza dei politici tecnocratici, che chiede “vie dirette” per la politica, sceglie invece come obbiettivo delle sue critiche un concetto così sfuggente come quello di sistema. Una utilissima generalizzazione di vecchia data che permette alla sinistra di accusare tutti i suoi demoni – i banchieri, i politici, i borghesi, etc. – esonerando allo stesso tempo il governo Zapatero, sul quale non si è sentita dire una sola parola di critica. Il partitismo più ideologico sotto l’apparenza dell’oltrepartitismo più idillico.
2) Il secondo fattore che salta alla vista è la logica statalista nascosta tra le pieghe di un apparente risveglio sociale generalizzato. Indignados contro lo Stato e contro le regole di una democrazia che non riesce a rappresentarli –accusa che, d’altra parte, condivido completamente-, gli accampati in piazza gridano: “Senza casa, senza ragazza, senza lavoro!”. E aspettano che sia una decisione dello Stato a darli la casa, la ragazza e il lavoro – se possibile come funzionari statali, certo. Leggo, non senza sorpresa, che una delle assemblee in cui si è deciso di boicottare tutte le prese di possesso dei sindaci eletti democraticamente lo scorso 22 maggio, decide, allo stesso tempo, di chiedere al Comune di Barcellona dei locali pubblici dove poter sviluppare le riunioni che fino a quel momento si tenevano in piazza.



In un recente articolo su El País, Rosa Montero sottolineava l’importanza del fatto che il “capitale sociale” che il movimento del 15-M ha messo in moto sia canalizzato attraverso iniziative concrete. Le iniziative proposte per le assemblee sono fondamentalmente contestatarie: boicottaggio di tutto quello che c’è.
Se si vuole che il desiderio di protagonismo sociale di quel magma di persone che hanno raggiunto Sol sperando in una novità rimanga (tanti, purtroppo, se ne sono già andati, più scettici di prima) e sia capace di costruire bisogna cambiare logica. Ci vogliono certamente delle riforme elettorali (il bisogno delle liste aperte sembra imporsi sempre più evidentemente) e strutturali. Ma dall’utopismo antisistema –di matrice in fondo statalista- bisogna passare all’azione quotidiana e paziente, quella di tanti spagnoli che hanno saputo reinventarsi per arrivare con i soldi alla fine del mese: cambiando lavoro o ripensando quello che avevano, imparando lingue e andando all’estero o imparando a vivere con meno. È quella la forza sociale di cui ha bisogno la Spagna.

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