Non si cela più dietro ammonizioni in privato o lettere personali, è ormai palese la frattura tra il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e la guida suprema della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Sayed Ali Khamenei. La campagna “depurativa” lanciata contro l’entourage del presidente iraniano, suggellata nel corso dell’ultimo mese dall’arresto del capo di gabinetto Esfandiar Rahim Mashaie e di altri 3 stretti collaboratori di Ahmadinejad, è stata una clamorosa prova di forza del clero sciita, una solenne rammemorazione di quale sia la direzionalità gerarchica tra potere spirituale e potere temporale in Iran. Il capo di Stato iraniano, tuttavia, non è rimasto passivo ad osservare il rimaneggiamento del suo governo; ha mostrato di ricordare bene quale condotta deve tenere un uomo politico rispetto alle decisioni del Clero, eppure non si è mostrato timoroso di ovviare agli schemi: “la nostra posizione è di rimanere in silenzio” – ha detto – “ma se vogliono continuare, con diversi pretesti, ad accusare i miei collaboratori di gabinetto, farò il mio dovere morale, legale e nazionale difendendoli”.
Il presidente Ahmadinejad, in barba a chi, già nel 2005, quando successe alla presidenza di Seyyed Mohammad Khatami, gli dava pochi mesi di resistenza, ha dominato lo spazio pubblico per sei anni. E lo ha fatto con ossequio nei confronti del Clero ma anche con spirito di indipendenza. Tuttavia, quella che in passato era forse soltanto una malcelata gara di vanità tra Ahmadinejad e Khamenei, si è trasformata negli ultimi mesi in una sottile “linea rossa” – per ricalcare le parole usate due giorni fa dallo stesso presidente – materializzatasi attorno al giudizio su Esfandiar Rahim Mashaie. Genero di Ahmadinejad, nonché suo più fido collaboratore e voluto a tutto i costi come capo di gabinetto (nonostante il consiglio di Khamenei di allontanarlo dalla scena politica), Mashaie è stato oggetto di una durissima campagna di delegittimazione da parte del Clero nei mesi precedenti il suo arresto.
Mai in verità troppo amato negli ambienti religiosi per le sue idee liberali e nazionalistiche, Mashaie era stato tuttavia “tollerato”. Ma un mese fa le cose sono cambiate, quando su di lui è piombata l’accusa di  “deviazione”, imputazione non di poco conto nel quadro della Repubblica Islamica. In sostanza, Masahie avrebbe “stregato” il presidente con concetti eterodossi, tra cui, ad esempio, l’idea che l’Iran debba condurre una lotta contro Israele ma non contro il popolo israeliano. Dall’arresto di Mashaie (fine di maggio) a quello degli ultimi tre collaboratori (la settimana scorsa), Ahmadinejad non ha occultato i suoi malumori. Il presidente ha addirittura disertato numerose riunioni di gabinetto, assalito probabilmente dai dilemmi sul suo stesso futuro. Sono, d’altra parte, già in molti a scommettere che il capo di Stato si dimetterà prima del completamento del suo mandato nel 2013 e speculare su chi potrebbe essere il suo successore.



Ma cosa c’è dietro questa rigida e autoritaria ristrutturazione di governo che il Consiglio Supremo degli Ayatollah sta portando avanti? L’Iran ha bisogno in questo momento più che mai di ribadire la natura religiosa della legittimità del suo potere politico. E’ questa, infatti, la cifra delle strategie offensive della Repubblica Islamica, oltre che sostanza ideologica della sua ambizione egemonica sul mondo arabo. Mentre, infatti, qualcuno ha sostenuto che l’Iran potrebbe essere uno dei principali beneficiari delle Intifade del 2011, in realtà la potenza persiana paventa l’emergere di un potere sunnita nella regione, potenziale freno alle sue velleità; quest’ultimo era stato finora represso dai regimi arabi – primo tra tutti quello dell’alleato siriano – mentre il progetto imperialistico iraniano sul mondo arabo si basa, fin dal 1979, proprio sull’esportazione della rivoluzione islamica, sulla creazione di legami con le varie comunità sciite e sull’alimentazione del confronto con i sunniti, massimamente rappresentati dal peggior nemico arabo dell’Iran, l’Arabia Saudita.
Le esercitazioni militari partite due giorni fa e intitolate “Great Prophet-6”, durante le quali sono già stati lanciati 14 missili balistici a media e lunga gittata, in grado di trasportare anche eventuale materiale nucleare (tra questi, poi, ci sono gli Shabah-3 con un raggio di 2000 km e, dunque, capaci di colpire Israele!) sono di certo mirate a far capire agli Usa e allo Stato ebraico che l’Iran è pronto a qualsiasi forma di confronto. Ma sono anche un segnale fortissimo per il Mondo Arabo. E’, infatti, l’egemonia regionale che sta a cuore all’Iran, soprattutto ora che la ridefinizione degli equilibri politici negli Stati arabi coglie l’egemone statunitense incerto e titubante sul ruolo di cui farsi carico in questa congiuntura. E non è un caso che politica estera e politica interna siano adesso più che mai così intimamente legate: la svolta conservatrice in corso nella Repubblica Islamica non fa altro che riaffermare l’ideale della Rivoluzione del 1979 come atto di nascita di modello politico da esportare mentre, nel frattempo, l’Iran fa capire ai suoi vicini arabi di essere l’unico attore regionale su cui contare per far fronte davvero alla minaccia israeliana. 

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