Dopo circa 5 mesi dalla caduta di Mubarak, i giovani di piazza Tahrir sono tornati a fare sentire la propria voce. Dopo l’entusiasmo delle rivolte dello scorso febbraio, infatti, i segnali concreti di cambiamento sono stati ben pochi e le richieste dei manifestanti, in linea di massima, non sono state ascoltate a favore, invece, degli inevitabili giochi di potere che si aprono ogni qual volta si crea un’improvvisa assenza di leadership all’interno di uno Stato.



In questo caso, come appare evidente, sono le istanze più potenti e radicate nella società ad avere maggiori probabilità di candidarsi alla guida del Paese, essendo già strutturate e organizzate. Se guardiamo, inoltre, alla storia recente del Mediterraneo e del Medio Oriente, e non solo, ci accorgiamo come spesso ci sia stata una correlazione tra i fautori delle rivolte e coloro che, poi, hanno assunto le redini del potere.



Nel 1969, in Libia, la monarchia senussita venne abbattuta da un colpo di stato da parte degli Ufficiali Liberi guidati da Gheddafi che ha retto la Jamahiriya libica fino a pochi mesi fa e che ancora oggi non sembra intenzionato a cedere quel che resta della sua autorità. La rivoluzione iraniana del 1979 fu guidata, seppure “a distanza”, dall’Ayatollah Khomeini che poi divenne la guida suprema del Paese. Nello stesso Egitto, poi, la monarchia di re Faruq fu rovesciata da un colpo di stato degli Ufficiali Liberi che si impossessarono subito del potere, prima con Neghib e poi, per un periodo più lungo, con Nasser. Sembra insomma che, di norma, chi rovescia il governo di un Paese poi ne diviene in qualche modo la nuova guida.



Eppure, la primavera araba, e dunque anche quella egiziana, sembra mettere in discussione questa equazione. E proprio qui forse sta il problema. Chi ha fatto la rivoluzione in Egitto non sembra avere la possibilità di candidarsi ad assumere la guida del Paese, gli attori che hanno abbattuto il regime sono stati messi da parte dalle forze maggiormente strutturate e potenti. Detta in altri termini, i partiti liberali e socialisti e i movimenti giovanili, nati o sviluppatisi con la rivoluzione, non hanno ancora la forza per proporsi come leadership presentandosi alle elezioni e questo lascia il campo libero ai gruppi storicamente radicati nel territorio e, dunque, meglio organizzati, primo tra tutti quello dei Fratelli Musulmani, ma anche quello formato dagli eredi del disciolto Partito Nazionale Democratico di Mubarak.

Ciò è evidente se si pensa che i regimi non sono costituiti soltanto dal leader, che in questo come in altri casi è stato defenestrato, ma sono invece sistemi complessi rodati da decenni di gestione del potere e non crollano in un giorno poiché parte dei loro attori e delle loro strutture restano attanagliati alle fondamenta del potere e non sempre “affondano con la barca”. È questa la chiave di volta per comprendere cosa sta accadendo in Egitto e che, forse, potrebbe accadere in altri paesi coinvolti dalle proteste, ed è questa la principale causa del malcontento popolare che poi è sfociato in nuove manifestazioni di piazza, ultima quella dello scorso venerdì che ha coinvolto alcune migliaia di persone. Per comprendere meglio cosa sta accadendo nel Paese è utile esaminare i motivi del malcontento che ha spinto di nuovo la popolazione a invadere le piazze.

Mancate riforme costituzionali

In primo luogo, vi sono le richieste legate alle modifiche della carta costituzionale, percepite come l’architrave del cambiamento del Paese e della netta cesura con l’era Mubarak. Il referendum per la revisione della carta dello scorso marzo ha deluso i manifestanti. I Fratelli Musulmani, unitamente ai militari, hanno spinto, infatti, per un pacchetto di 10 emendamenti considerati per lo più come un’operazione di maquillage, che non ha di fatto intaccato i poteri della giunta di ex generali del rais, oggi al comando del Paese, in barba all’opposizione di chi, invece, chiedeva una più profonda riforma statale, come Mohammed ElBaradei e lo stesso Amr Moussa, attuale segretario generale della Lega Araba. Il rischio è quello di lasciare campo libero all’instaurazione di un sistema, definito da molti, di “mubarakismo senza Mubarak”.

 

Strapotere dell’esercito

Il secondo motivo, strettamente collegato al primo, riguarda il potere dell’esercito, considerato una vera e propria casta militare che, subito dopo le rivolte, ha colto l’occasione per stringere la propria morsa sul Paese. I giovani della primavera araba chiedono di ridurre i poteri del Consiglio Supremo delle Forze Armate, accusato di eccessiva contiguità con l’ex apparato di Mubarak. L’esercito, infatti, in questi ultimi mesi si è reso protagonista di un ambiguo equilibrismo e non è stato capace di rispondere alle richieste di profondo rinnovamento avanzate dai manifestanti, che lo accusano, tra le altre cose, di eccessiva lentezza nel sanzionare i responsabili della repressione della rivolta che ha rovesciato il regime di Mubarak. Il tutto è culminato, poi, nel giugno scorso, nelle manifestazioni contro il capo del Consiglio Supremo delle forze armate, Hussein Tantawi.

 

Stagnazione istituzionale

Proprio questa “pigrizia” nell’attuare le riforme chieste dalla piazza costituisce un’altra causa di forte preoccupazione per le prossime elezioni politiche. Il Paese appare assolutamente impreparato a questo appuntamento, basti pensare che la legge elettorale non appare ancora chiara e non si è proceduto alla completa registrazione dei partiti. In queste condizioni, i partiti di nuova formazione, in particolare quelli laici e riformisti, temono che tutto il vantaggio vada al partito Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani, l’unico già ben radicato nel territorio e in grado di realizzare una reale propaganda. Per questo sono stati chiesti a gran voce tempi più lunghi per le elezioni, per dare tempo alle organizzazioni giovanili e ad altri gruppi in via di formazione politica di strutturarsi e promuovere le proprie campagne elettorali.

 

La realtà dei fatti

Se da un lato i motivi delle proteste sono concreti e condivisibili, dall’altra è però possibile rinvenire alcuni elementi che potrebbero mettere, se non in crisi, comunque in discussione un risultato elettorale che forse appare troppo scontato.

In primo luogo, da un punto di vista strettamente “organizzativo”, sembra che le recenti manifestazioni abbiano ottenuto l’effetto sperato e le elezioni potrebbero essere posticipate di 3 mesi che, certo, non sono molti, ma potrebbero comunque permettere ai nuovi partiti di organizzarsi meglio.

Inoltre, seppure sia innegabile che i Fratelli Musulmani siano oggi la maggiore forza politica del Paese, non va dimenticato che il partito in questo momento non è poi così unito come appare “dall’esterno”, soprattutto a causa di dissidi tra gli storici esponenti del partito e i nuovi gruppi giovanili o, per dirla in altri termini, tra “conservatori e riformisti”. Non è un caso che, di recente, il direttivo del movimento ha deciso l’espulsione di cinque dirigenti del suo gruppo giovanile che si sono rifiutati di aderire al nuovo partito politico Libertà e Giustizia, dando vita a una loro formazione, in contrasto con la linea del gruppo dirigente dei Fratelli Musulmani.

In precedenza, poi, era stato espulso il dirigente islamico Abdel Moneim Abul Futuh, che ha comunque deciso di candidarsi alle elezioni presidenziali. Il 22 giugno, un gruppo di giovani dei Fratelli Musulmani ha annunciato la formazione di un proprio gruppo politico, il “Partito dell’Egitto di oggi”. A questi va poi aggiunto Al Nour, il “Partito della Luce” dei salafiti. La maggior parte di questi gruppi, poi, è scesa in piazza l’8 luglio per manifestare assieme alla “gente comune” e questo è un evidente segnale della presa di coscienza della necessità di tenere in considerazione gli umori popolari.

Sembra, insomma, che anche per i Fratelli Musulmani valga “la legge del minimo comun denominatore”: il movimento si è presentato coeso fin quando c’è stato il nemico comune contro cui “combattere”, ma, una volta abbattuto e, dunque, una volta venuto meno il minimo comun denominatore, sono inevitabilmente riemersi gli interessi delle singole fazioni, tutte interessate a conquistare la propria fetta della torta.

 

In conclusione, dunque, seppure lo scenario continui a vedere in prima linea i Fratelli Musulmani, i giochi sembrano ancora abbastanza aperti e se la rivoluzione c’è stata e, per certi versi continua a esserci, la transizione è tutt’altra questione ed è su questa che si giocheranno i reali equilibri futuri dell’Egitto.

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