Le recenti dichiarazioni del Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, secondo la quale il presidente siriano Bashar Al Assad non è più legittimato a governare, mi hanno richiamato ancora una volta alla memoria quel che, ormai circa trent’anni fa, mi osservò a Beirut un capo falangista pochi giorni dopo l’uccisione di Bashir Gemayel, leader della Falange e nuovo presidente designato del Libano. A me, che gli dicevo di immaginarmi che i maroniti non avrebbero avviato alcuna trattativa con il fronte sciita-palestinese loro nemico se non fosse prima uscito di scena il gruppo dirigente responsabile dell’attentato a Bashir, costui mi rispose senza alcuna esitazione: “Lei si sbaglia, è proprio con chi ha sparso sangue che si deve trattare. Solo infatti chi ha sparso sangue è in grado, se vuole, di decidere che non se ne sparga più. Trattare con altri non serve a nulla”. Queste parole mi fecero di colpo venire in mente il nostro Rinascimento e cogliere le ragioni di qualcosa che del nostro Rinascimento mi scandalizzava, ovvero appunto la normale disponibilità dei principi italiani di quel tempo ad alternare guerre, stragi e congiure con accordi e con trattati di pace spesso di qualità esemplare, oggetto fino ad oggi di attenti studi nella accademie diplomatiche di ogni parte del mondo. Il Levante dei nostri giorni, pensai allora tra me e me, e penso tuttora, è un po’ come l’Italia dei secoli XV e XVI.



Oltre ad essere di una tracotanza imperiale ormai pure anacronistica (non si capisce in nome di che cosa uno Stato dovrebbe avere il diritto di stabilire chi sia legittimato a governare un altro Stato) le dichiarazioni di Hillary Clinton testimoniano ancora una volta il deficit di comprensione culturale che purtroppo caratterizza la politica degli Usa e dell’Occidente in genere nei confronti del Vicino e del Medio Oriente.



Di volta in volta si prende a tiro un dittatore con le mani più o meno sporche di sangue, da Saddam Hussein a Gheddafi, e da Gheddafi adesso a Bashar al Assad. Lo si isola diplomaticamente; gli si monta contro una campagna mediatica nel corso della quale viene indicato come unico responsabile di delitti che purtroppo si potrebbe ugualmente imputare a tanti capi di Stato e di governo; infine lo si attacca se possibile usando l’Onu come foglia di fico, ma spesso anche senza nemmeno questa attenzione. Con questo risultato, nella misura in cui non si riesce a far cadere il dittatore manu militari e dall’esterno: il pasticcio di un’occupazione militare variamente truccata all’ombra della quale il vuoto di potere così provocato sfocia  in un’instabilità, e di regola anche in una violenza, che sono più gravi di quelle che si era così preteso di evitare.



Una tappa di rigore dell’“escalation” che porta poi alla guerra è la campagna di indignazione per qualcosa di clamorosamente violento e illegittimo che il dittatore preso di mira a un certo punto compie nel corso della crisi. Fu il caso dell’invasione del Kuwait, che Saddam Hussein ordinò dopo circa un anno che l’Occidente non comprava più petrolio iracheno. È il caso adesso, per fortuna senza paragoni meno drammatico e cruento, degli assalti alle ambasciate americana e francese a Damasco, ovviamente orchestrate ed evidentemente anche controllate dal governo siriano in modo che non causassero danni alle persone.

Secondo una certa mentalità araba il gesto di forza è un modo per costringerti a trattare; secondo la nostra mentalità occidentale moderna invece il gesto di forza chiude la porta alla trattativa, e quindi il rimedio ad esso è condizione preliminare all’apertura di qualsiasi dialogo. Beninteso non siamo tenuti a credere che quanto in proposito teniamo per fermo noi non abbia il suo valore; tuttavia abbiamo anche il dovere di renderci conto di che cosa ad esempio un Bashar Al Assad ci vuole dire ordinando un assalto controllato come quello subìto l’altro giorno a Damasco dalle ambasciate Usa e di Francia. Oppure – osserviamo per inciso non essendoci qui spazio per soffermarci di nuovo sul caso della Libia – su che cosa ci vuol dire Gheddafi consentendo (se non organizzando) l’esodo di emigranti illegali sub-sahariani dalle coste libiche verso Lampedusa.  

È possibile che nel mondo arabo l’epoca delle dittature militari stia per fortuna finendo, ma la transizione da esse verso la democrazia (tutta la democrazia possibile nella situazione data) non è qualcosa che può compiersi in un battibaleno; e soprattutto è un processo che diventa forte e solido nella misura in cui avviene per spinte endogene e non per urti dall’esterno. L’impegno ad evitare derive catastrofiche di questo genere dovrebbe a mio avviso essere uno dei grandi obiettivi della politica estera del nostro Paese, che sta al centro del Mediterraneo e che è l’unico tra i membri del G8, ricordiamolo ancora una volta, ad essere bagnato dal Mediterraneo e da esso soltanto.