In politica internazionale la capacità di prendere atto della realtà è sicuramente una necessità e insieme una virtù. Il realismo politico insegna infatti a rifuggire l’astratto idealismo velleitario che rifiuta di adeguare i fini che si vogliono perseguire ai mezzi che si hanno a disposizione. Contemporaneamente, però, lo stesso realismo mette in guardia da una conduzione della politica estera troppo incline al cinismo o anche eccessivamente pronta a cambiare indirizzo alle prime difficoltà. Risulta in tal senso poco apprezzabile la fretta con cui il governo francese ha improvvisamente cambiato rotta nella conduzione della campagna di Libia, decidendo d’amblais di considerare il colonnello Gheddafi come un possibile interlocutore politico. Un passo stupefacente, se solo si considera che fu proprio Parigi a forzare letteralmente la mano alla comunità internazionale dando esecuzione immediata e unilaterale alla Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che invitava gli Stati membri a prendere le misure necessarie alla realizzazione di una no-flight zone sui cieli della Libia allo scopo di impedire al colonnello di sterminare i suoi oppositori.



Da allora in poi, l’Eliseo si era sempre mosso in una direzione univoca, orientata all’interpretazione più estensiva possibile della Risoluzione 1973 e all’atteggiamento più intransigente nei confronti del colonnello. Così, anche a costo di aspre polemiche con gli alleati, Parigi aveva spinto per la conduzione di una campagna aerea molto “muscolare” – cosa che aveva portato la Lega Araba a ritirare il proprio sostegno all’iniziativa alleata – e aveva esplicitato durante il vertice G8 di Deauville la posizione francese, secondo la quale “non c’è nessuna mediazione possibile con Gheddafi”. Nelle settimane successive, oltretutto, l’incriminazione del colonnello da parte del Tribunale Penale Internazionale sembrava aver precluso completamente ogni possibile ripensamento da parte francese o alleata. E la decisione di Parigi di riconoscere il Comitato Nazionale di Transizione come governo provvisorio legittimo del Paese e di rifornire di armi i ribelli (causando l’irritazione di russi e cinesi) appariva un altro passo nella direzione di chiudere qualunque possibilità di ricerca di una “soluzione politica”.



Le dichiarazioni rese il 10 luglio scorso durante una trasmissione televisiva dal ministro della Difesa francese, Gérard Longuet, lasciano perciò di stucco, tanto più che si immagina debbano riflettere il pensiero di Sarkozy, considerato che la politica estera e di difesa in Francia ricade sotto il riservato dominio del presidente della Repubblica. È pur vero che la campagna aerea sta andando molto per le lunghe e con risultati non soddisfacenti, a causa principalmente del defilarsi americano, dello scarso impegno di molti alleati, e della limitate capacità militari europee. Ma ciò non toglie che un simile, imprevisto cambio di rotta rischi di mettere in serio imbarazzo gli alleati e di creare confusione proprio quando se ne sentiva meno il bisogno. Il Dipartimento di Stato americano si è infatti affrettato a ribadire che “Gheddafi non può restare al potere”, ma evidentemente sono la Nato e i ribelli quelli maggiormente spiazzati dall’ennesimo protagonismo solitario dei francesi.



Al quartier generale dell’Alleanza Atlantica c’è da ritenere che molti pensino che la mossa di Parigi miri a ribadire che la vera leadership politica di tutta l’operazione resta nelle mani francesi, nonostante la conduzione e l’organizzazione della campagna aerea siano state poste sotto la responsabilità della Nato e benché sia stato costituito un Gruppo di Contatto sulla questione libica (di cui fa parte anche l’Italia). La sola idea di smettere “di bombardare non appena i libici parlano fra di loro e i militari dei due campi rientrano nelle loro caserme” (sempre nelle parole di Longuet) o di “un vero cessate il fuoco sotto il controllo delle Nazioni Unite”, come ha affermato il ministro degli Esteri Alain Juppé, non deve essere piaciuta al Segretario Generale dell’Alleanza, l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen. E meno ancora deve essere piaciuta ai ribelli, che tutto possono accettare fuorché l’ipotesi di trattare con Gheddafi.

Che cosa c’è dietro “l’incoerenza francese”, allora? I più maliziosi ritengono che Sarkozy avrebbe voluto festeggiare la caduta del rais in occasione del 14 luglio e che il protrarsi di una campagna estremamente costosa lo preoccupi in misura crescente a mano a mano che si avvicina l’inizio della campagna elettorale per le presidenziali. Sogni di grandeur infranti a parte, il logoramento inefficace dello strumento militare francese rischia di far ridimensionare la percezione interna ed esterna della Francia come “grande potenza”, così centrale nel discorso politico e ideologico gollista. E a Parigi potrebbero essere preoccupati che l’irritazione russa e cinese nei confronti della Francia possa costare qualche ricco contratto di troppo all’economia francese, il cui stato di salute non è comunque dei migliori di questi tempi.

Ma forse, la ragione decisiva, quella che sommata a tutte le altre ha fatto optare per il cambio di strategia, è la preoccupazione di Parigi per un possibile vincitore che potrebbe capitalizzare i successi in tutte le diverse rivoluzioni arabe, riuscite o in fieri: dall’Egitto alla Tunisia, dalla Libia alla Siria. Cioè quei Fratelli musulmani che inquietano un inquilino dell’Eliseo mai tenero con gli arabi (si ricorderà il pugno di ferro applicato contro i migranti che cercavano di raggiungere le famiglie in Francia nei mesi scorsi) e timoroso che un eventuale successo della Fratellanza nel Mediterraneo meridionale e orientale potrebbe fornire alimento alla propaganda islamista anche presso i milioni di cittadini francesi musulmani che ormai rappresentano una parte consistente del panorama umano d’Oltralpe.

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