Per oltre cinquant’anni, grazie ad Eni, siamo stati il maggiore operatore energetico in un Paese, la Libia, a noi assai vicino e ricchissimo di giacimenti, sia nel deserto che in mare aperto. Nel nuovo scenario che si profila però nessun pozzo petrolifero sarà italiano nello stato nordafricano. Il primo ministro libico Al-Baghdadi giovedì scorso ha infatti ufficializzato la decisione di interrompere ogni relazione commerciale del suo Paese con il nostro colosso degli idrocarburi, partner storico nella produzione ed esportazione di olio e gas. Fin da marzo, cioè già dall’inizio della guerra in Libia, la gestione delle attività di estrazione e di trasporto era stata ridotta. Ora la “cacciata” di Eni, che implicherebbe la fine di ogni collaborazione con l’Italia, appare inevitabile. Esplicitando il pensiero di Gheddafi, il ministro ha infatti dichiarato: “Con Eni abbiamo chiuso per sempre perché l’Italia ha violato un accordo di non aggressione siglato tre anni fa. Eni non potrà ottenere più parte nei contratti petroliferi con la Libia. Avvieremo rapporti con società russe, cinesi o sud americane”. Il Colonnello, in pratica, non ha più bisogno di Eni e dell’Italia.
Il gruppo Eni arrivò in Libia alla fine degli anni 50, realizzando importanti impianti estrattivi ed altre significative opere di ingegneria e costruzioni. Una collaborazione che negli anni è andata crescendo e consolidandosi. Gli accordi originali che regolavano le iniziative sono poi stati ulteriormente perfezionati e prolungati di recente, nel 2008, attraverso i contratti firmati con la Noc, società petrolifera di Stato. La salda collaborazione siglata prevedeva la durata dei titoli minerari fino al 2042 per l’olio e fino al 2047 per il gas. Nel 2009, i giacimenti hanno permesso ad Eni di essere in assoluto il primo produttore di idrocarburi nel Nord Africa, con oltre 520mila barili di olio al giorno (di cui 250mila di proprietà). Le aree di produzione storiche sono situate sia nel deserto orientale (Bu Attifel fu scoperto nel 1967 e attivato nel 1972 e produce oggi 90mila barili giorno) sia nel deserto centro-orientale. Le aree off-shore mediterranee sono di fronte a Tripoli, con sfruttamento garantito tramite enormi piattaforme, collegate a loro volta ad un’unità navale di stoccaggio dalla straordinaria capacità di 1 milione e mezzo di barili di petrolio.
La Libia rappresenta anche una grande opportunità nel settore del gas naturale: nell’ambito del Western Libyan Gas Project (in cui Eni ha il 50%) si sono realizzati i campi di Wafa e le piattaforme di Sabratha. Da questi luoghi di estrazione il gas viene inviato tramite pipeline all’impianto di trattamento di Mellitah. Parte del gas viene utilizzato nel paese di origine e per alimentare la maggiore centrale elettrica della zona. La maggior parte di volumi, tuttavia, viene destinata all’Italia.
Il gasdotto Green Stream per l’importazione del gas prodotto dai campi libici è un’opera imponente: con un diametro di 32 pollici è lungo circa 520 km e attraversa il mediterraneo raggiungendo una profondità di 1.127 metri. La stazione di partenza dalla costa nord africana è nella località di Mellitah, mentre la stazione di ricezione italiana è in Sicilia, nel comune di Gela. Nel 2010 il nostro paese si è approvvigionato dalla Libia per 9 miliardi di mc di gas, una percentuale superiore al 10% del nostro fabbisogno annuo.
E gli investimenti libici stavano proseguendo: l’ipotesi era quella di incrementare la capacità di trasporto dl gas fino a 11 miliardi annui. Nella zona desertica orientale erano in corso perforazioni per il recupero di potenziali minerari residui ed anche attività di esplorazione per ipotizzare nuovi impianti produttivi. Le fonti informative parlano di iniziative complessive di Eni, realizzate o avviate, superiori ai 30 miliardi di euro.
Bisogna rammentare che però in Libia Eni non vuol dire solo energia; anche se di importanza più relativa occorre infatti sottolineare la cooperazione con le comunità locali, attraverso qualificate iniziative sociali. I programmi, con investimenti pari a oltre 150 milioni di dollari, prevedono progetti dedicati allo sviluppo di professionalità e formazione, alla salute e alla salvaguardia dell’ambiente, fino alle importanti ricerche archeologiche nella millenaria storia di quelle coste. L’ospedale cardiologico di Tripoli avrebbe dovuto diventare opportunità di ricovero per i più poveri paesi confinanti, quali Ciad, Niger e Sudan.
Quello della Libia è (era) perciò per Eni un portafoglio di relazioni e di importi economici di assoluto rispetto. Dopo l’annuncio del primo ministro la società finora ha taciuto, irreprensibile nella sua condotta e avvezza ai rischi della geopolitica. Le attività, del resto, erano già a rischio. Alla borsa di Milano in questi giorni il titolo ha avuto una flessione contenuta; dall’inizio dell’anno il valore ha perso poco più del 5%. La questione passa ora attraverso i Tribunali internazionali cui sicuramente rimandano i corposi contratti e le numerosissime clausole. Il gruppo di San Donato potrebbe porre qualche residua speranza anche negli accordi tramite la Nato. Si può presupporre che tutto ciò avvenga sia che Gheddafi resti, sia che esca di scena.
Qualche amara riflessione è legata alla facile previsione che chi se ne va dalle coste e dal deserto libico lascia il posto ad altri operatori energetici. La competizione internazionale della geopolitica coloniale è sempre intensa; che sia con i cugini transalpini o con gli emergenti cinesi (affamatissimi di energia e fortissimi finanziariamente), la questione è che il governo libico potrà ora fare affari con altri.
Per le ricadute energetiche del nostro paese, come già assicurato ad inizio guerra dal capo azienda Scaroni, non ci saranno preoccupazioni sugli approvvigionamenti. Gas e petrolio arriveranno da altri zone del pianeta. La diversificazione delle fonti fossili per fortuna è assicurata da una storia di oltre mezzo secolo. Inevitabili tuttavia sono le ricadute sui prezzi dell’energia: inutile aggiungere commenti, parla per sé il prezzo del carburante con cui riforniamo i nostri veicoli.