Nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, continua l’afflusso inarrestabile di persone, per lo più somale, che giungono in condizioni disperate per trovare riparo e cibo. I bambini, quando sopravvivono agli attacchi di iene e leoni, arrivano malnutriti. Gli adulti sono stremati dalla fame. Sono ormai decine di migliaia le persone che lasciano la propria terra, costrette dalla tremenda siccità che tre anni ha colpito la Somalia. Arrivano al ritmo di 1400-1500 al giorno per cercare rifugio nel nostro campo, dichiarato saturo già nel 2008, dove stiamo operando in accordo con l’agenzia ONU per i rifugiati e in cooperazione con il governo locale.
È difficile registrare i nomi di chi arriva: la stanchezza, la fame e la sete sono le prime cose su cui intervenire e chi arriva spesso non ha nemmeno la forza di parlare. A dare una mano, in tutto questo caos, a volte sono persone rifugiate nel campo da tempo.
Una delle storie che mi ha colpito è quella di Kalar Moh’d Hiolowle, 38 anni, somalo. Sposato, con sei figli, di cui una senza una gamba, vive qui a Dadaab da un anno. A Jilip, nel suo villaggio, faceva l’agricoltore. La prolungata assenza di precipitazioni ha impedito la semina e inaridito il terreno, la guerra ha fatto il resto. Così, un anno fa decide di fuggire verso il Kenya, con tutta la famiglia. Prende la macchina, carica i figli, ma dopo pochi chilometri l’auto li abbandona. Il confine s’intravede appena. Comincia per lui e i suoi un viaggio penoso a piedi, dieci giorni prima di arrivare in terra kenyota. Oggi non possiede niente e non lavora, ma è tra i primi a offrirsi volontario in uno dei punti di raccolta dell’acqua.
Habiba Bulle, invece, è nel campo da poco meno di un mese. Mi ha raccontato dell’allevamento di capre che aveva in Somalia, a Gedoo. La siccità ha portato via il suo bestiame, lasciandola senza nulla. Così, alla morte del marito, si è incamminata con i figli verso Dadaab, fuggendo dalla guerra e da al-shabaab, un gruppo insurrezionale islamista attivo in Somalia che crea non pochi problemi alla popolazione. Il suo viaggio è durato sei giorni dalla frontiera al campo profughi. Quando è arrivata è stata ricevuta dal Community Leader che l’ha aiutata a trovare un posto dove sistemarsi. Nel campo non lavora e continua a ripetere che sarà Dio a farla mangiare ogni giorno.
Sono passate poco meno di due settimane dall’appello lanciato dal Papa per la crisi dovuta alla siccità in Africa Orientale. Nel frattempo anche le Nazioni Unite hanno dichiarato l’emergenza e al vertice straordinario della Fao Ban Ki-Moon ha detto che “ci vuole una mobilitazione internazionale a favore dell’intero Corno d’Africa”. È vero: siamo in una situazione difficile, che richiede uno sforzo imponente da parte dell’opinione pubblica mondiale. Ma serve anche un modo nuovo, più umano, di guardare quelle decine di migliaia di volti che ogni giorno affollano i cancelli del campo. Per non lasciare che la fame e la sete cancellino quel barlume di dignità che brilla ancora nei loro occhi; lo stesso che spinge Kalar ad alzarsi ogni mattina per dare una mano e aiutare chi, come lui un anno fa, è arrivato senza possedere più nulla.
Per fronteggiare la crisi, Avsi ha aderito all’appello di AGIRE (www.agire.it l’Agenzia italiana di risposta alle emergenze), al fine di reperire risorse ulteriori. È attivo l’sms solidale 45500. Tramite questo numero si potranno donare 2 euro inviando un sms da cellulari Tim, Vodafone, coopvoce, o chiamando da reti fisse Telecom Italia e Teletu
(Maria Li Gobbi)