Alla fine della scorsa settimana è stato annunciato a Bruxelles un accordo che potrebbe infine portare al formarsi di un nuovo governo chiudendo una crisi che era aperta da oltre un anno. Otto partiti, tanto fiamminghi quanto valloni, hanno infatti a tal fine dato vita a una coalizione da cui restano fuori i nazionalisti fiamminghi del partito di Bart de Wever, che sin qui aveva bloccato ogni possibile intesa.
Non va tuttavia trascurato il fatto che questo partito è a ogni modo la forza politica di maggioranza relativa nelle Fiandre. Quindi è difficile al momento prevedere se davvero si potrà formare un governo che lo esclude. Quale che sia l’esito di questo accordo – che mentre scriviamo non si può ancora prevedere – resta il fatto che a oggi il Belgio è da 14 mesi senza governo, ma nel frattempo nell’insieme tutto funziona e il suo Prodotto interno lordo è aumentato del 2,4%: un tasso di crescita più che soddisfacente tenuto conto della situazione complessiva dell’economia europea.
Per tutto questo tempo il Parlamento belga, uscito dalle elezioni del 14 giugno 2010, non è riuscito a dar vita a una maggioranza di governo a causa dell’indisponibilità dei partiti fiamminghi ad allearsi con gli analoghi partiti valloni (francofoni). Il casus belli è stata l’intricata situazione di Bruxelles, città francofona la cui periferia si è ormai estesa nel Brabante fiammingo che la circonda, con la conseguenza che ci sono quartieri dove la maggioranza degli abitanti è francofona anche per l’80%, ma dove il francese non è ufficiale e quindi non ha uso pubblico legittimo.
I rancori che i fiamminghi hanno maturato nei confronti dei valloni, rei di avere per oltre un secolo discriminato il fiammingo, aiutano a capire incresciose situazioni di questo genere a causa delle quali il Belgio si sarebbe già spaccato definitivamente in due, se non fosse per la persistente comune lealtà verso la casa regnante e altri motivi di cui diremo più avanti.
Non è però su questi aspetti della questione che vorremmo ora soffermarci, bensì sull’involontario ma significativo “laboratorio” politico che il Belgio è divenuto a causa di tale stato di cose. Al riguardo vale però in primo luogo la pena di precisare che considerarlo “senza governo” è una forzatura giornalistica. Il primo ministro uscente Yves Leterne, infatti, è rimasto ovviamente in carica per il disbrigo degli affari correnti; un governo insomma è esistito anche se non ha potuto fare altro che l’ordinaria amministrazione.
Il Belgio si è così trovato ad avere per oltre un anno quel “governo leggero”, che lascia ampio spazio alla società civile, ritenuto da molti politologi una risposta particolarmente adeguata alle urgenze del nostro tempo. È sorprendente ma sintomatico che dall’opinione pubblica non venissero veementi sollecitazioni a un sblocco della crisi politica in atto. Nessuno dubitava in Belgio che non si potesse restare senza governo a tempo indeterminato, ma per lo più non ci si preoccupava molto vedendo che la proverbiale luce in fondo al tunnel ancora non si scorgeva. È chiaro che questa lunga “sede vacante” era molto più sostenibile in Belgio di quanto avrebbe potuto risultare altrove, grazie al suo essere sede di istituzioni di grande rilievo come l’Unione europea e la Nato, le quali entrambe hanno a Bruxelles e dintorni i loro quartieri generali. Le spinte centrifughe vengono di fatto compensate da queste presenze. Ciò tuttavia spiega molto ma non tutto.
Esiste ormai un filone di pensiero nella scienza politica che, prendendo le mosse da vari punti di partenza, converge verso l’idea che oggi in prospettiva una società civile molto capace di autogoverno possa fare da sé quasi tutto. È il pensiero che trova un grosso punto di elaborazione nella “Scuola di Bloomington” nata attorno all’insegnamento di Vincent ed Elinor Olstrom, quest’ultima premio Nobel per l’Economia 2009. Una scuola di pensiero politico che prende nome dalla località del Midwest degli Stati Uniti sede dell’Università dell’Indiana ove il “Seminario Olstrom” raduna ogni anno i più autorevoli studiosi di questo orientamento.
È un pensiero che per la sua attenzione ai “beni comuni” in Italia viene talvolta spacciato per neo-giacobino, per neo-progressista mentre non lo è affatto, come giustamente Carlo Lottieri sottolinea nel suo contributo a Dalle vicinie al federalismo, autogoverno e responsabilità, un interessante volume a più voci recentemente edito a sua cura dall’Associazione culturale Carlo Cattaneo di Pordenone.
L’Istituto Bruno Leoni di Torino è un altro importante crocevia italiano di queste nuove forme di pensiero politico, le cui origini sono diverse ma i cui traguardi hanno punti di contatto molto interessanti con i modelli di riorganizzazione della vita pubblica nel segno della sussidiarietà.
In tale prospettiva – osservo per inciso – è tra l’altro in corso nell’ambito della scuola di Bloomington una sorprendente riscoperta di Carlo Cattaneo, in particolare a opera dello studioso italo-canadese Filippo Sabetti, con sottolineature inedite, compresa quella del carattere esplicitamente non anti-cristiano del suo agnosticismo, normalmente censurato dalla cultura ufficiale italiana.
Trattandosi de facto del maggior esperimento di “governo leggero” che si sia registrato (ovvero si registri) non solo in Europa ma in tutto l’Occidente sviluppato, alla luce del pensiero politico che si sta elaborando in tali sedi il caso belga assume allora valenze non solo e non primariamente negative.