A distanza di qualche mese dall’inizio della “primavera araba”, i riflettori dei media occidentali si sono spenti sulle trasformazioni in atto nei paesi del nord Africa e del Medio oriente. Dalla Libia allo Yemen, passando per l’Egitto e la Tunisia, sono molte le variabili che possono decidere il futuro di quei paesi: la ricchezza, la guerra, le oligarchie, le trasformazioni della classe media, i nuovi partiti politici. Di tutto questo ilsussidiario.net ha parlato con Georges Corm, libanese, economista, studioso del mondo arabo, docente nell’Università Saint Joseph di Beirut. Secondo Corm, uno dei rischi maggiori viene dalle nuove oligarchie, che rischiano di monopolizzare il potere e di compromettere la fragile evoluzione della democrazia. Senza tacere le gravi responsabilità della politica del «doppio standard» che ispira Usa ed Europa.



In un recente articolo lei ha scritto di una “estate calda” che avrebbe seguito la primavera araba. A suo modo di vedere come si sta evolvendo la situazione nei paesi arabi? E quali sono le differenze maggiori tra i vari paesi?

Purtroppo siamo di fronte ad un’estate davvero molto calda con situazioni di violenza a vari livelli in diversi Paesi. La Libia si trova nel pieno di una guerra civile in cui sono coinvolti membri della Nato, nello Yemen e in Siria c’è una situazione di stallo tra una parte “rivoluzionaria” e gruppi più conservatori che non approvano un cambio completo di regime. In Egitto sta crescendo l’insofferenza tra i gruppi laici giovanili, che continuano a premere sul Consiglio militare per accelerare il cambiamento. In questo Paese sembra chiaramente in atto uno spostamento della Fratellanza musulmana per porsi al centro delle forze conservatrici. Solo in Tunisia il cambiamento politico sembra procedere in modo più ordinato. Tuttavia, dovremo aspettare i risultati delle elezioni e quali cambiamenti economici e sociali saranno necessari.



Quanto pesano le ragioni economiche che stanno dietro questi eventi, al di là della domanda di libertà e di democrazia?

Personalmente ritengo che i gruppi sociali poveri ed emarginati, che ovunque sono stati la componente principale dei movimenti rivoluzionari, siano motivati quasi esclusivamente da ragioni socio-economiche. Anche se condividono l’aspirazione alla libertà e alla fine dell’autocrazia della classe media, il loro scopo principale è ottenere un miglioramento sostanziale del loro livello di vita grazie a maggiori opportunità di impiego e a più servizi sociali ed educativi offerti dallo Stato.



Lo sviluppo economico e una maggiore eguaglianza nella distribuzione delle risorse sono cruciali per la stabilità dei paesi arabi. Ma tutto questo è possibile senza l’aiuto degli altri paesi non arabi? E come si può far sì che questo aiuto non li condizioni politicamente?

Credo che si debba sviluppare un nuovo paradigma economico per il futuro dei paesi arabi. Gli aiuti e le rimesse degli emigranti hanno continuato a fluire in gran quantità durante gli ultimi cinquant’anni, senza riuscire a creare nel mondo arabo economie diversificate e dinamiche. Queste economie hanno espresso pochissime attività produttive in grado di competere sui mercati globalizzati.

Ma come si spiega una così ampia sperequazione nella ricchezza?

La distribuzione della ricchezza è estremamente ineguale tra i Paesi arabi, così come al loro interno, perché le loro economie, sia quelle basate sul petrolio che le altre, sono economie fondate sulla rendita, che scoraggiano le attività produttive e arricchiscono senza alcuno sforzo una clientela di ricchissimi affaristi legati ai governanti arabi, a prescindere dal loro sistema politico (monarchia o repubblica).

Uno dei problemi che devono essere affrontati è come evitare un conflitto nascente tra la classe media, che è stata protagonista delle rivolte, e le classi più basse e più povere. Qual è la sua opinione in proposito?

Sì, questo sta diventando un aspetto piuttosto difficile. Tuttavia, lo stesso ceto medio non è un gruppo omogeneo, ma è composto da un gruppo ad alto reddito legato all’economia globale, da un gruppo a reddito medio e da una classe media piuttosto povera. In futuro si potrebbe assistere a un’alleanza tra gli strati inferiori del ceto medio (funzionari pubblici, operai di aziende pubbliche, operai sottopagati del settore privato) a sostegno degli scioperi e delle rivendicazioni salariali dei sindacati.

Le masse che giungono in Europa per fuggire dal caos e dalle cattive condizioni economiche stanno diventando un grosso problema. D’altra parte un ritorno dall’estero delle eccellenze potrebbe rilanciare le economie dei paesi arabi. Come si può gestire questa situazione? “Scambiando” i lavoratori più specializzati (di ritorno nei paesi arabi) con manodopera a basso costo (verso l’Europa)?

Finora il numero di nuovi immigrati clandestini non è così alto (la stima è di 20-30mila persone, i più dalla Tunisia e dalla Libia). Queste cifre vanno confrontate con il flusso di rifugiati che un paese come la Siria ha ricevuto dall’Iraq (un milione e mezzo) o la Giordania che ne ha ricevuto un milione. L’Europa sta cercando di attirare le persone più dotate dalla riva meridionale del Mediterraneo, mentre respinge quelle senza specializzazioni, benché ci sia bisogno di loro nelle economie europee. Non credo che questo sia una politica molto razionale per nessuna delle due sponde del Mediterraneo. I “cervelli” e le persone qualificate dovrebbero restare nei Paesi arabi, mentre l’Europa dovrebbe pianificare meglio la sua domanda di personale poco qualificato.

In che modo?

L’Europa dovrebbe sviluppare una visione strategica delle reali possibilità esistenti di complementarietà economica nella competizione globale tra le due sponde del Mediterraneo, piuttosto che essere ossessionata dal libero scambio e dalla cosiddetta “flessibilità” dei mercati del lavoro. Senza una tale visione strategica di come migliorare la competitività della zona euro-mediterranea nei confronti di Asia e Nord America, regolare i movimenti migratori continuerà ad essere irrazionale ed inefficiente.

Dall’esterno, questa regione sembra molto diversificata sotto il profilo etnico e religioso e delle strutture statali. È possibile raggiungere una comune comprensione di che cos’è la democrazia? E quanto è diverso un concetto arabo di democrazia da quello europeo, o occidentale?

“Democrazia” è un concetto piuttosto vago e ci sono tante forme di democrazia. La democrazia può talvolta nascondere il potere assoluto di un’oligarchia, specialmente ora che è stato permesso a miliardari di scendere in politica ed essere eletti. Queste persone possono controllare imperi mediatici, grandi banche, canali della distribuzione commerciale, industrie, grandi appezzamenti di terreno agricolo. Quando entrano nell’agone politico creano un profondo squilibrio e gli altri attori politici non possono competere con loro. Devono piuttosto allearsi in modo servile con costoro. Come mostrato dall’onda dei movimenti di massa arabi e dai loro slogan, per l’arabo qualunque la democrazia significa garantire la “dignità” e il rispetto di tutti gli esseri umani a prescindere dal loro status economico, sociale, etnico o religioso.

Non siamo affatto distanti dai famosi “principi repubblicani” che la rivoluzione francese ha diffuso nel mondo, in cui la nozione di “cittadinanza” è così affine alla nozione di “dignità”. Se questa nozione di cittadinanza che include il diritto di essere trattati con dignità e rispetto da parte di altri cittadini o di chi esercita il potere statale viene realizzata, allora non siamo lontani da ciò che è l’essenza della cittadinanza nel patrimonio rivoluzionario europeo. Membri di etnie specifiche o gruppi religiosi nei paesi arabi dovrebbero quindi godere di pieni diritti culturali o religiosi. Il diritto di scegliere la propria religione o affiliazione politica e di usare uno specifico linguaggio (curdo, turcomanno, armeno, e berbero) dovrebbero essere parte di questa nozione di dignità o cittadinanza, che presuppone anche il sentimento di una appartenenza comune, a dispetto di queste differenze.

Un’ultima domanda: come Usa ed Europa possono aiutare i paesi arabi in questa congiuntura difficile ma ricca di opportunità?

Dovrebbero astenersi dall’interferire negli affari interni di questi paesi, cosa che stanno invece facendo quotidianamente con le loro dichiarazioni ufficiali e valutazioni sulla situazione in certi Paesi arabi, ma non in altri. Il doppio standard è ancora la norma nelle politiche occidentali verso i paesi arabi. La Dichiarazione del G8 di Deauville sulla primavera araba svela anche la volontà di controllare quanto sta succedendo nel mondo arabo, di raggiungere il cambiamento in alcuni casi, ma di mantenere lo status quo in altri. Fornire denaro ai nuovi regimi con i condizionamenti tipici del Fondo Monetario Internazionale è la strada che porta al disastro.

(Pietro Vernizzi)