Un ordigno esplosivo piazzato lungo la strada, un mezzo militare italiano che salta in aria. Non è la prima volta, e anche questa volta un soldato delle forze italiane rimane ucciso. Si tratta del caporal maggiore Gaetano Tuccillo di Palma Campania in provincia di Napoli. E’ la vittima numero 38 da quando i nostri soldati si trovano in Afghanistan dal 2004. L’attentato è avvenuto nelle vicinanze del villaggio di Caghaz a sedici chilometri di distanza da Bakwa, distretto di Farag, regione del Gulistan. Le reazioni della politica sono state immediate, dalla commozione espressa dal capo dello Stato che ha telefonato personalmente alla vedova, alla richiesta di Umberto Bossi di lasciare immediatamente l’Afghanistan. Gian Micalessin, inviato speciale in zone di guerra ed esperto del conflitto afgano, spiega perché sarebbe un errore.



In seguito all’attentato, il sottosegretario alla difesa italiano ha definito la zona del Gulistan “la più pericolosa del mondo”: è davvero così?

Sicuramente è una delle più pericolose dell’Afghanistan. E’ una zona in cui le truppe italiane a settembre hanno preso il posto dei marines americani. Una regione difficilmente controllabile dove fiorente è la coltivazione della droga. In particolare la città di Bakwa nelle cui vicinanze c’è stato l’attentato che è costato la vita al nostro militare, è uno dei punti più caldi dell’intero Afghanistan. Si tratta di un importantissimo crocevia nonché strada di percorrenza per il trasferimento dal sud del Paese e quindi dal confine pakistano verso le province interne dell’Afghanistan degli insorti oltre che una via della droga.



Proprio all’inizio del mese di giugno le truppe italiane hanno portato a compimento in questa zona un’importante missione con l’arresto di sette persone coinvolte nella preparazione di attentati.

Sì, oltre all’arresto di queste persone ci sono state confische ingenti di narcotici e anche di un laboratorio di preparazione di ordigni esplosivi identici a quello usato per l’attentato che ha ucciso il nostro caporale.

Si può dire che questo attentato sia stato mirato, una sorta di vendetta?

Una rappresaglia, senz’altro, nei confronti delle nostre truppe. Una rappresaglia che si inquadra comunque nell’ambito di un conflitto in questa zona che va avanti da mesi. Un conflitto che vede il nostro tentativo di assumere il controllo della regione e il tentativo degli insorti di continuare a destabilizzare la situazione.



 

Gli attentati tramite ordigni esplosivi posti lungo le strade di percorrenza dei nostri mezzi sembrano avere una terribile efficacia. Forse i nostri mezzi non sono adeguati?

 

Assolutamente no. I Lince, i mezzi usati dalle nostre truppe, sono attualmente il miglior compromesso esistente in termini di sicurezza e agibilità sulle strade afgane, tanto è vero che sono stati comprati anche dall’esercito inglese e da quello russo. Ricordiamoci che è fondamentale avere mezzi quanto più possibile in grado di muoversi sugli sterrati e sul terreno sconnesso afgano. Gli americani, ad esempio, hanno in dotazione un veicolo di trasporto che pesa sei tonnellate, certamente sicuro, ma che si muove sul terreno come un dinosauro, lentissimo e poco efficace. Ma non esiste sicurezza totale per nessun tipo di veicolo, quando aumenta il quantitativo di esplosivo impiegato è inevitabile succeda quel che è successo.

 

Cosa si può fare per cercare di evitare queste situazioni?

Il problema per quanto riguarda questo tipo di attentati è  avere un servizio di intelligence efficace, che riesca a individuare gli ordigni prima che esplodano, sapere dove essi sono posizionati sul territorio. Lo si fa ad esempio con il drone, il velivolo aereo telecomandato che è in dotazione anche al nostro esercito, lo si deve fare con un lavoro di intelligence sulla popolazione civile che spesso è informata su dove si trovano gli ordigni. Non sempre ci si riesce, come successo, ma questo fa parte dell’inevitabile situazione di instabilità afgana.

 

Il nostro esercito, sempre in questa area, si è distinto recentemente con opere civili a favore della popolazione. Ma i civili afgani da che parte stanno?

A Bakwa si può dire che ci sia un rapporto quasi organico tra civili e insorti. Se da una parte le nostre truppe cercano di sviluppare e migliorare le condizioni di vita della popolazione per portarla dalla nostra parte, dall’altra gli insorti continuano a ricattare e minacciare la gente per tenerli dalla propria. Si tratta di un gioco sottile che va combattuto con una presenza capillare delle nostre truppe sul territorio, all’interno dei villaggi. E soprattutto rendendo l’esercito e la polizia afgani in grado di esercitare veramente il controllo del territorio. Fino a quando questo non succederà, gli insorti potranno continuare a ricattare la popolazione civile. Va poi tenuto conto che questa zona è ancora legata a un sistema tribale di clan, che sono divisi e in lotta fra di loro.

In seguito all’attentato, l’opposizione ha fatto due richieste precise al Governo: sapere quale sia esattamente la strategia del nostro esercito in Afghanistan e quali tempi di permanenza si prevedono.

Non esiste una strategia italiana in Afghanistan, l’unica strategia esistente è quella della Nato a cui il nostro esercito ovviamente si adegua. E questa strategia ultimamente ha adottato un linguaggio a mio avviso sbagliato, essendo poi la strategia della Nato la strategia degli americani. Intendo l’annuncio fatto da Obama di un ritiro graduale dall’Afghanistan delle truppe americane. Tenendo conto che gli americani presenti sono 90mila e le truppe di tutte le altre nazioni insieme arrivano a 35mila unità, l’abbandono degli americani entro il 2014 significa che della strategia Nato rimarrà ben poco, così come rimarrà ben poco di quello che abbiamo fatto fino ad oggi.

Come possiamo leggere l’annuncio di Obama? Che la guerra è ormai inutile oppure che si è vicini alla vittoria?

Il ritiro americano annunciato da Obama è soltanto funzionale ai suoi interessi personali di politica interna. Dopo l’uccisone di bin Laden gli americani ritengono la guerra in Afghanistan inutile. Obama poi è stato spesso accusato di aver seguito una politica guerrafondaia in Afghanistan, ragion per cui in vista delle prossime elezioni ha bisogno di recuperare i voti della sinistra democratica che lo ha abbandonato. E’ un punto di vista miope che dice che per dichiarare vinta una guerra basti uscirne. E’ una guerra cominciata ben prima dell’11 settembre, e la decisione di Obama è una decisione disastrosa che innescherà un ritiro a catena. Dopo gli americani, faranno lo stesso gli inglesi, poi i francesi e infine anche noi. Non sarà una vittoria ma solo rimandare fra dieci, quindici anni un nuovo intervento militare in Afghanistan.

Quale sarebbe allora la strategia giusta da perseguire?

 

La strategia giusta è quella messa a punto fra il 2008 e il 2009, quella che parla di una presenza sul territorio fino a quando l’esercito afgano sarà in grado di difendersi da solo. Con una polizia capace di mantenere il controllo nei centri urbani. Si tratta di tempi lunghi, almeno altri dieci anni. Questa strategia cominciava a dare dei frutti, se non la si persegue sarà tutto perduto. Le guerre non si fanno con il cronometro in mano.

 

Cosa ha significato per i talebani l’uccisione di bin Laden?

 

Ben poco. I talebani non centrano nulla con Al Qaeda, i rapporti fra le due realtà erano già tesi sin da subito dopo l’11 settembre 2001. Considerare i talebani una filiazione di Al Qaeda è sbagliato. I talebani sono una forza locale, interna all’Afghanistan, manovrata dal Pakistan per mantenere il controllo della regione. In Afghanistan, il vero pericolo e il vero terrore sono i talebani, non Al Qaeda.

 

(Paolo Vites)