Mentre i fiori della “primavera araba” sembrano resistere alla consunzione del passaggio stagionale, il bilancio di questa “estate araba” ci induce a pensare che molte altre stagioni si susseguiranno prima che potremo davvero valutare il successo, il fallimento o l’aborto delle transizioni agognate dai movimenti rivoluzionari. Nel puzzle del nuovo mondo arabo la tessera che forse più di tutte mostra quanto precarie siano le speranze e le scommesse delle Intifade del 2011 è la Siria. Cuore dell’arabità, sia per collocazione geografica che per rivendicazione e ambizione culturale, la Siria è certamente – come in molti hanno osservato in questi ultimi mesi – l’ago della bilancia del complesso status quo regionale e la caduta del regime attualmente in carica potrebbe facilmente scatenare una guerra civile tra i diversi gruppi confessionali che compongono la società con considerevoli ripercussioni sui paesi confinanti. E’ proprio questo, d’altra parte, l’argomento che i governi occidentali avanzano quando si trovano a giustificare l’impossibilità di intervenire manu militari contro il regime di Bashar al Assad. Tanto più che tra i paesi confinanti con la Siria almeno 2 (Israele e Turchia) sono particolarmente cari all’Occidente e sugli altri due (il Libano e l’Iraq) l’intervento occidentale ha negli ultimi anni ambito, pur non riuscendoci sempre, a instaurare la stabilità interna; è questa, in altri termini, la peculiarità che distingue il caso siriano da quello libico, ben mostrando quanto la “responsability to protect”, in barba agli oltre 1400 morti (solo quelli ufficiali!) che la repressione del regime siriano ha già provocato negli ultimi 4 mesi e mezzo, sia visceralmente vincolata da un bieco calcolo di realpolitik. A onor del vero, anche l’opposizione siriana è divisa sull’ipotesi di un intervento militare esterno: nelle piazze di Deraa e Homs nell’ultimo venerdì della preghiera il grido rivolto alle potenze della terra era “il vostro silenzio ci uccide” mentre i cosiddetti comitati di coordinamento regionale (creati ad hoc per gestire le proteste) e le diverse componenti dell’opposizione siriana riunitesi prima in Turchia e sabato scorso ad Algeri, hanno ribadito di non volere un intervento militare nel paese.
Il contesto internazionale – Al di là della divergenza di visioni sul futuro della Siria – tra chi pensa che sia troppo tardi per il “dialogo nazionale” (Al-Hiwar Al-Watani) promosso dal regime e chi invece ritiene che un compromesso con Assad sia necessario – quello che il contesto siriano ci fa comprendere è quanto la complessa interconnessione tra sfera interna e dimensione internazionale di uno Stato possa pietrificare sul piano politico le dinamiche di mutamento che si sviluppano al livello sociale. Le rivoluzioni, in sostanza, non bastano a se stesse. I casi dell’Egitto e della Tunisia sono a questo proposito esemplari: è quantomeno legittimo chiedersi se la caduta di Mubarak in Egitto o Ben Ali in Tunisia sarebbe stata così rapida se non ci fosse stato un intervento decisivo di USA ed Europa in supporto degli attori in grado di gestire la transizione all’interno dei due stati.
Le blande sanzioni europee e statunitensi contro una dozzina di dirigenti politici vicini ad Assad non hanno avuto certamente né l’intenzione né l’effetto di mettere in ginocchio la famiglia al potere e il suo entourage,mentre una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non è mai stata presa realmente in considerazione: la Russia, partner storico della Siria e principale venditore di armi al regime, si è fin dall’inizio opposta. La Cina lo stesso. Dal suo canto la Casa Bianca non ha alcun interesse ad indispettire il Cremlino dopo i recenti riavvicinamenti diplomatici tra USA e Russia seguiti all’accordo sulla riduzione degli armamenti nucleari. Inoltre le missioni militari in Afghanistan, Iraq, senza dimenticare quella ancora in corso in Libia, hanno già fin troppo inciso sul debito pubblico statunitense e fanno intuire che la Casa Bianca sia stanca di invischiarsi in affari altrui dalla durata imprevedibile. L’Europa, preoccupata dal futuro della Grecia e dall’instabilità dei mercati di molti membri comunitari, che, a mano a mano che il mondo si complica, stanno per di più riducendo le missioni militari all’estero, si trova nel momento peggiore per essere richiamata ad un senso di responsabilità internazionale. Persino la Francia, che ha recentemente ridefinito la sua politica estera, svincolandola spesso e volentieri dal quadro comunitario e puntando verso l’interventismo internazionale, deve aver incassato la lezione della guerra contro Gheddafi e delle difficoltà di una risoluzione-lampo di crisi in cui troppe variabili restano oscure.
Il contesto regionale – All’immobilità della comunità internazionale fa poi da complemento la debolezza delle voci dei paesi vicini. La Lega Araba ha atteso tre mesi prima di esplicitare la sua formale condanna nei confronti del regime siriano. L’Arabia Saudita, che pure mal tollera la partnership speciale della Siria con l’Iran, suo rivale storico, quasi subito dopo lo scoppio delle proteste nel paese, ha inviato un ambasciatore a Damasco per dichiarando la sua volontà di non interferire con gli affari del regime. L’imprevedibilità dei potenziali scenari post-Assad preoccupano poi Israele e Turchia: la possibilità di una guerra civile provocherebbe un esodo ben più importante nelle proporzioni di quello che Ankara si è già trovato a fronteggiare quando i carri armati siriani hanno assediato la regione nord di Idlib a pochi chilometri dalla frontiera turca. In Siria vivono, inoltre, 800.000 curdi che dal mese di aprile hanno intensificato il dialogo con i loro omologhi dell’Iraq e della Turchia meridionale, facendo paventare la potenziale riapertura di un problema che peserebbe come un macigno sul governo di Recep Tayp Erdogan. Il leader dell’AKP aveva, infatti, puntato anche sulla risoluzione della questione curda nel programma elettorale con cui è stato riconfermato premier il 12 giugno scorso e una riapertura del dossier avverrebbe proprio nella fase in cui le forze dell’opposizione interna stanno mettendo in crisi la sua onnipotenza sulla scena politica turca.
Sul fronte israeliano la caduta del regime non assicurerebbe più la stabilità delle Alture del Golan, garanzia che Hafez al Assad prima e poi suo figlio Bashar hanno offerto a Israele per ben 38 anni. Un potenziale futuro governo sunnita in Siria è infine per lo Stato ebraico molto più enigmatica del mantenimento del potere alawita di Assad: la possibilità di una politica più aggressiva anti-israeliana andrebbe ad aggravare le prospettive di crescente insicurezza per Israele. C’è infine il Libano, paese che più risente della complicata situazione siriana. L’attuale governo capeggiato da Hezbollah vede con timore la caduta del regime siriano, suo storico protettore e finanziatore, mentre la possibilità di una guerra civile siriana che vedrebbe gli alawiti (sciiti) accanto ai cristiani, protetti dal regime opporsi ai sunniti (che rappresentano la maggioranza della popolazione siriana), avrebbe l’effetto di un contagio immediato della tensione inter-confessionale, già elevatissima nel paese dei Cedri.
La dimensione interna – Se troppe variabili esterne inducono a pensare che la caduta di Assad sia poco probabile, altrettanti fattori interni rendono enigmatica la tenuta del regime siriano. In primo luogo c’è da chiedersi quanto l’economia siriana potrà tollerare il blocco degli investimenti esteri, la svalutazione progressiva della moneta, che ha già perso il 15% sul dollaro americano e la perdita totale di tutte le entrate provenienti dal turismo internazionale. Il supporto economico iraniano non basta a mantenere in vita lo stallo di un paese di 23 milioni di persone e il rischio di bancarotta è tutt’altro che lontano dalle prospettive. Inoltre è proprio l’impasse della frattura tra governo e popolazione che rappresenta l’incognita e la minaccia più aspra per la apparente stabilità del regime siriano. In primo luogo, il regime siriano non ha – e non potrebbe strutturalmente – concedere più diritti alle altre componenti politiche e sociali: il rigore violento dell’autoritarismo siriano è, infatti, l’unica formula con cui una piccola minoranza etnica (quella degli alawiti) può mantenere il controllo su una popolazione a maggioranza sunnita. Ecco perché le riforme proposte dal regime, tra cui l’ultimo disegno di legge sul multipartitismo, hanno un valore puramente cosmetico e per nulla credibile.
In secondo luogo, un regime che massacra il suo popolo ha già perso de facto ogni fonte di legittimità del suo potere e, dunque, l’unico (l’ultimo) strumento che rimane ad Assad è la coercizione. La strategia del regime da questo punto di vista è molto chiara: fintanto che la gente non avrà paura di scendere in piazza per protestare il regime continuerà ad uccidere i suoi cittadini. Ieri ad Hama, città storicamente ribelle, oltre 100 persone sono state uccide in una sola mattinata. Il mese del Ramadan, che comincia oggi, sarà un mese probabilmente sanguinoso. Ma se il regime continuerà ad uccidere, non potrà certo uccidere tutti i suoi cittadini. C’è forse un esempio che Bashar al Assad dovrebbe tenere in considerazione: durante la rivoluzione islamica in Iran le proteste popolari contro lo Scià si protrassero per un anno intero dal 1978 al 1979 e più la repressione militare faceva crescere il numero dei morti, più la gente persisteva nelle proteste. E alla fine è stato il popolo – e non il potere – a vincere.