Il convoglio delle 8 è pronto. Siamo tutti alla stazione della polizia. L’aria condizionata non funziona, i finestrini sono abbassati. Ci sono troppi fuoristrada stamattina. Sono le 8 e 5, nessuno si muove. Dopo un po’ siamo investiti da un nuvola di polvere: ci rendiamo conto che il convoglio è finalmente partito.
Ci saranno 30 veicoli questa mattina che vanno verso Ifo e Dagahaley, i due campi profughi che, nati nel 1991 dopo la crisi del governo somalo di Siad Barre, insieme ad Hagadera dovevano ospitare un massimo di 90,000 persone. A gennaio 2011 la popolazione dei campi contava giá quasi 300,000 persone. I numeri. Grandi, fieri, tanti e che difficilmene riesci a dimenticare. Fino a qualche tempo fa se alle 7:55 del mattino non eri alla stazione di polizia, Tango One, in gergo VHF, perdevi la scorta e dovevi aspettare le 9 per poter iniziare il tuo lavoro. In questi giorni si arriva tranquillamente alle 8.10 e ci sono ancora veicoli che si incolonnano per recarsi nei campi. Senza scorta non ci si muove.
Eccoli di nuovo i numeri. Di nuovo, ci aiutano a prendercela comoda al mattino.
Oggi andiamo a fare un visita in campo. Vogliamo incontrare i nuovi arrivi, le nuove persone . I profughi. Vogliamo conoscerli meglio ed ascoltare quello che hanno da raccontare. Vogliamo provare a dar loro delle risposte concrete, forse non immediate, ma che possano essere in linea con le loro aspettative. Non vogliamo farli sentire solo dei numeri.
Sono ormai 4 settimane che il flusso di rifugiati è in crescita costante. Ieri ho studiato le statistiche: ci sono tra i 5,000 ed i 6,000 somali che ogni settimana scappano dalla Somalia e cercano assistenza umanitaria qui in Kenya. Un flusso di migranti, soprattutto donne e bambini che vogliono provare a rifarsi una vita in un paese nuovo, dove sanno che riceveranno aiuto ed assistenza.
Il centro di registrazione del campo di Ifo è costituito da tre tende. Ci sono centinaia di persone, sono tutti allineati alla perfezione, mi ricordo quando facevo la fila agli sportelli del bancomat in Belgio. A Bruxelles pioveva, avevamo cappotti ed ombrelli, a Dadaab si sta in fila sotto il sole rovente. Per fortuna questa è la stagione delle piccole piogge (non ha ancora fatto una goccia) e per lo meno c’è vento.
Mi incammino e vado dai miei colleghi di LWF, una ong internazionale che è impegnata nella prima accoglienza. Suraya sta parlando ad una famiglia composta da una donna e 5 bambini aiutata da un interprete. Rimango colpito dal modo in cui questa donna ascolti con attenzione la mia collega, sembra che penda dalla sua bocca: le danno un po’ di legna, un recipiente e la spediscono all’altra fila. Qui le daranno del cibo e delle pentole e le sarà assegnata una tenda.
Le tende. Innumerevoli. Salgo su una water tank, scavalco il cancello, non c’è il guardiano, ho voglia di capire, guardare, rendermi conto dei numeri. Conto i gradini da salire, una scala di metallo, il vento è forte, devo davvero tenermi forte: 1, 2, 3… arrivo in cima. Con me i colleghi kenioti. Ci affacciamo e guardiamo l’ orizzonte. Utilizzo lo zoom della macchina fotografica per avvicinarmi a quei punti bianchi che vediamo in lontananza. Sono le famose tende di UNHCR, bianche, si intravede perfino il logo azzurro, una accanto all’altra, tutte sistemate ben bene, in ordine, in fila…
Mi ricordo quando ero uno scout e, durante l’annuale campo estivo, dormivamo in tenda per 15 giorni. Vi confido che per me era dura essere con altre 6-7 persone nella stessa tenda, con i bagni lontani, la tenda della squadriglia degli Squali a sinistra e quella dei Delfini a destra. Questi pensieri sono scacciati via immediatamente alla vista di questo orizzonte.
La mia amica Silvia lavora con UNHCR, si occupa di reinsediamento dei rifugiati, un mezzo per dare protezione internazionale ai rifugiati, un programma che praticamente permette ad una persona di iniziare una nuova vita in un paese diverso. Mi racconta che nel 2010 a Dadaab sono arrivate quasi 6,000 persone al mese, ma sono stati processati per il reinsediamento solo 8,000 fortuanti nell’arco dell’anno. Anche questi numeri non vanno via dalla testa.
Aspettiamo Fatma in fila con lei. Le chiediamo se le possiamo fare qualche domanda. Nel frattempo do ‘un cinque’ ad uno dei suoi figli. Ha i capelli biondi, gialli, sinonimo di mancanza di ferro e proteine. Fatma ha 20 anni, ci racconta che viene dal Basso Shabele in Somalia, ha camminato per quasi 40 giorni prima di arrivare a Dadaab. Ha corrotto diverse persone per poter arrivare senza problemi qui in Kenya. Ci racconta che aveva un piccolo orto e che sono mesi che non piove. Tutto il raccolto è andato perso e quando ha visto che le sue riserve di cibo stavano diminuendo, ha preso le poche cose che le rimanevano e si è diretta da alcuni parenti. Questi ultimi non l’hanno potuta aiutare perché anche loro erano stati colpiti dalla siccità e ha dunque deciso di tentare il viaggio della speranza verso il Kenya. Si è portata dietro anche due nipotini, perché, una volta a Dadaab, i somali sanno che saranno aiutati.
Le chiediamo quali siano le sue aspettative, i suoi sogni. Vuole ritornare a casa, ci dice. Ma vuole anche dare un futuro ai figli, mandarli a scuola, farli crescere in un paese senza guerra. Le diciamo che noi di AVSI stiamo cercando di dare una risposta alla crisi umanitaria costruendo scuole e mettendo in piedi centri per l’adolescenza negata a queste piccole creature. Ci sorride. Ci chiede se può venire anche lei a scuola. I colleghi di UNHCR la chiamano, è finalmente il suo turno.
Ci avviciniamo ad un punto di raccolta dell’acqua. Incontriamo tanti bambini. Sono in fila con le jerricans (taniche di plastica) gialle, quasi più grandi di loro. Accompagnano le madri che sono al pozzo a raccogliere l’acqua. Dovrebbero essere tutti a scuola, sono le 9.30 del mattino. Ci avviciniamo ad una donna. Le chiediamo il suo nome e la sua storia. Si gira, ci guarda con i suoi occhi fieri. Non ci risponde e va via. Rispettiamo il suo silenzio.
E’ la volta del piccolo Shukri, ha 6 anni. Viene dal corridoio di Afgoye, un campo profughi alle porte di Mogadiscio. Lui è scappato con il fratello più grande. Sono i cosiddetti ‘minori non accompagnati’ che ricevono priorità assoluta. Di solito vengono affidati a parenti, ma se per motivi di sicurezza questo non è possibile, vivono nei ‘safe heaven’, piccole isole felici e protette all’interno dei campi. Shukri è venuto al pozzo per giocare con gli altri bambini. Ha una palla fatta di stracci ma è felice di calciarla! Gli chiediamo se vuole andare a scuola. Ha difficoltá a capire cosa sia una scuola: Omar, in nostro collega del settore dell’educazione cerca di spiegarglielo. Ci dice che si’, sarebbe contento di conoscere gli altri bambini e stare con loro. Non gli chiediamo altro, lo lasciamo alle prese con il pallone!
Dadaab oggi è la terza città del Kenya. E non è neppure sulle mappe del Kenya. Con i suoi 400,000 abitanti supera Kisumu, la cittá keniota sul lago Vittoria. Il trend di arrivi è aumentato. Da gennaio 2010 ad oggi sono arrivati quasi 90,000 rifugiati che portano il numero totale dei rifugiati a Dadaab a circa 400,000 persone. I numeri la dicono tutta. Inoltre, le notizie delle poche ONG internazionali in Somalia non sono incoraggianti: molti altri Somali hanno intenzione di varcare il confine, tra questi tante donne e bambini.
Decidiamo di entrare in Ifo Extention, uno dei due nuovi campi aperti dal Governo del Kenya che si appella alla comunitá internazionale perché da solo non riesce a gestire questa crisi umanitaria. Ho timore ad entrare nel campo, non perché non mi senta sicuro, ma perché ho paura di urtare la sensibilitá dei nuovi arrivati. Eppure ci accolgono con gioia, vogliono raccontare, vogliono farci conoscere le loro storie, vogliono essere ascoltati e ascoltare il nostro messaggio di pace. Perché noi siamo portatori di pace, vogliamo offrire educazione, perche’ la conoscenza é voglia di dialogo. Non di guerra.
Sedute all’ombra della loro tenda vedo una donna anziana e due gemelle. Chiedo ad Omar di fermarci e di chiacchierare con loro. Conosciamo cosí Amina, ha 40 anni ma ne dimostra 60. Le due gemelline le si stringono alle magre braccia. Gli altri due figli sono in tenda a riposare. E’silenziosa Amina, parla poco. Ci dice che non ha abbastanza cibo e che le avevano detto che a Dadaab avrebbe potuto avere tutto quello che non aveva in Somalia. Essere una rifugiata non è un bene. Se potesse tornerebbe a casa. Le chiediamo dei figli e di cosa ne pensi dell’educazione: lei non è mai andata a scuola ma vuole mandare soprattutto le figlie a scuola perché una donna educata, ci dice, commette meno errori.
Ci avviciniamo ad un altro nucleo familiare. Stanno bevendo il té. Ce lo offrono, ringraziamo ma decliniamo. Ci guardano stupidi. Qualcuno mi ha successivamente detto che non si rifiuta mai una tazza di té. Noor è il più piccolo, ha tre anni, ci guarda con i suoi due occhioni neri e ride. Non parla, si nasconde dietro il velo coloratissimo della madre. Proprio lei, Karima, ci dice che viene dal Basso Shabele ed è arrivata in macchina per 200 dollari americani fino al confine con il Kenya. Da Liboi ci ha messo 10 giorni per fare gli 80 km che la separavano da Dadaab. Ha incontrato i banditi che volevano derubarla dei suoi averi. E scoppia in una risata. Le chiediamo perché ride. Ci dice che non aveva piú niente con sé e, dopo essere stata insultata e picchiata l’hanno lasciata andare. Le é andata bene , ci racconta, perché durante il tragitto ha parlato con altre donne che invece hanno ricevuto un benvenuto in Kenya ben diverso… e che non osiamo immaginare.
La figlia piú grande, Fatima, ha vagato per il campo di Ifo e ha visto le ragazze delle scuole primarie nella loro uniforme rosa. Ci chiede se gliene possiamo dare una. Le diciamo che presto le scuole saranno aperte anche ad Ifo Extension e anche loro potranno indossare l’ uniforme. Salutiamo e andiamo via.
Decidiamo di fermare il nostro giro qui, all’orizzonte vediamo solo tende bianche, un numero impressionante. Noi di AVSI lavoriamo nel settore educativo a Dadaab, dal 2009, su richiesta dell’UNHCR e della Cooperazione Italiana. Costruiamo scuole e facciamo la formazione degli insegnanti, ci impegnamo a dare assistenza psicosociale. Ora con il network AGIRE, siamo impegnati nell’emergenza siccità nel Corno d’Africa. Chiunque può aiutarci. Perché i profughi non sono solo numeri ma persone con delle aspettative e delle esigenze. Persone, come noi.
Come aiutare:
• 45500 SMS Solidale: 2 euro dai cellulari Tim, Vodafone, Coopvoce o chiamando da reti fisse Telecom Italia e Teletu.
• Bonifico: Credito Artigiano – IBAN: IT56S0351201614000000002675 – intestato ad AVSI – Causale “AVSI con AGIRE”.
(Francesco Calcagno)