Ai Turchi non corre alcun obbligo di integrazione. Almeno in Olanda. E’ quanto ha stabilito martedì, a quanto riporta il quotidiano Trouw, l’Alta corte amministrativa di Utrecht. Si tratta del tribunale supremo in materia di giustizia amministrativa e ha disposto che la normativa nazionale vigente contrasta con quella europea. «La politica d’integrazione olandese è contraria a una convenzione dell’Ue», afferma riferendosi al provvedimento in vigore dal 2007 che impone agli immigrati che si trovano nei Paesi Bassi di seguire corsi, a pagamento, di cultura e lingua autoctona. Questi devono, inoltre, affrontare un esame finale, il non superamento del quale implica una multa o il diniego del permesso di soggiorno. Ebbene: per l’alta Corte tale normativa configgerebbe con la Convenzione di Ankara stipulata nel 1963 tra Turchia e Unione Europea, in base alla quale i cittadini turchi, così come i cittadini europei emigrati in Turchia, non debbano essere ostacolati da questi impedimenti. Sempre a quanto riporta il quotidiano, il ministero degli Esteri intende dirimere la questione “giocando d’astuzia”, istituendo «una frequenza scolastica obbligatoria che prescinda dall’età» per fare in modo che tutti i cittadini olandesi possiedano un livello minimo di istruzione e di conoscenza della lingua dei Paesi Bassi».
Abbiamo chiesto a Marco Olivetti, professore di Diritto Costituzionale presso l’Università di Foggia, di commentare la decisione del giudice. «Il problema sostanziale posto da questa decisione – chiarisce – è quello relativo alla possibilità di prevedere per i cittadini stranieri l’obbligo di apprendere la lingua del Paese in cui si trovano a vivere. Tale obbligo può essere configurato diversamente a seconda che si tratti di cittadini dell’Unione Europea o extracomunitari. La particolarità, in questo caso, dipende dal fatto che si tratta di turchi: cittadini non europei ma che con l’Ue hanno stretti rapporti, retti dalla Convenzione di Ankara». Questo è il quadro all’interno del quale si dipana la vicenda.
«Mi sento di esprimere – commenta – un certo grado di perplessità rispetto alla decisione del tribunale. L’obbligo previsto dalla legislazione olandese, infatti, a quanto si apprende, non era di tipo particolarmente invasivo. Non mi risulta, inoltre, che un obbligo del genere incontri un divieto nella Convenzione del ‘63 con la Turchia».
L’impressione di Olivetti rimane improntata allo scetticismo: «Mi sembra che il giudice olandese abbia adottato un approccio “attivistico” nell’interpretazione di queste norme. Del resto, in Olanda, non c’è il controllo di costituzionalità delle leggi varate dal Parlamento, ma sussiste la possibilità di dichiararle contrarie ai trattati internazionali. Ipotizzo che per questa ragione il giudice abbia deciso di avvalersi di un simile strumento giuridico per dichiarare la legge vigente illegittima».
Nessun dubbio, invece, sulla comunanza di lingua: «credo che sia ormai uno dei pochi elementi che vada richiesto alle persone che vanno a vivere in uno stato diverso da quello in cui sono nate. Questo, del resto, è l’orientamento di una parte sempre maggiore delle forze politiche europee». Che non penalizza in alcun modo le minoranze linguistiche. «Queste, in Europa“ spiega “ sono riconosciute e difese. Diverso, tuttavia, è l’atteggiamento nei confronti delle nuove minoranze. L’orientamento generale della cultura giuridica europea tende a sostenere che le norme a tutela delle minoranze linguistiche non siano da applicare alle minoranze di recente immigrazione. Ovviamente nessuno sarà mai obbligato a parlare, in privato, una lingua diversa dalla sua. Ma la conoscenza della lingua del Paese di destinazione è il prerequisito dell’integrazione e mi pare che uno stato abbia il diritto di imporre tale conoscenza a tutti coloro che vogliano diventarne cittadini».