Pare quasi il biascicamento degli ultimi atti di una farsa il corso degli eventi che in Libano sta facendo seguito alla deposizione dell’atto di accusa contro i presunti responsabili dell’assassinio dell’ex premier Rafic Hariri, rimesso al capo della procura di Beirut il 30 giugno scorso dal Tribunale Speciale dell’Onu, incaricato di condurre le indagini.



Al termine del suo compito, un mese e mezzo fa, il Tribunale si è congedato con l’ingiunzione rivolta alle autorità libanesi di arrestare “nell’arco di 30 giorni” i quattro accusati: Salim Ayyash, Moustafa Badreddine, Hussein Anaissi e Assad Sabra, tutti membri di Hezbollah. Inutile dire che il mandato di cattura sia rimasto a marcire sugli scaffali della procura di Beirut. Tutto prevedibile – intendiamoci – come in una commedia che segua pedissequamente la norma aristofanea: nessuno in Libano ha mai preso sul serio la possibilità che i sospettati venissero rimessi alla giustizia.



Senza ricorrere a superflue allegorie, d’altra parte, Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, partito dominante del neonato governo libanese, aveva detto che i quattro sospetti non sarebbero stati presi “né in trenta giorni, né in trecento anni”. E poi, mentre le elevate temperature mediorientali e gli avvenimenti nella vicina Siria rendono già fin troppo calde queste idi di agosto libanesi, il Tribunale ha, due giorni fa, reso pubblico il contenuto dell’atto di accusa che dà conto del corso delle indagini. Giusto per riattizzare il balletto di reazioni tra il gruppo parlamentare del 14 marzo, capeggiato dal partito al-Mustakbal di Saad Hariri, figlio di Rafic, e quello dell’8 marzo, guidato da Hezbollah.



I primi giocano a fare i giustizialisti, i secondi – i cattivi del copione – rifiutano l’attendibilità delle indagini, sostenendo che dietro le accuse del Tribunale ci sia l’obiettivo di indebolire il Partito di Dio. Nel frattempo dalla stampa internazionale, fin troppo protagonista di queste indagini (che, in corso di svolgimento, avrebbero forse dovuto rimanere più segrete – come la norma, d’altra parte, richiede), continuano a giungere notizie di presunte implicazioni dell’Iran, oltre che della Siria, sul cui coinvolgimento si è già detto e scritto parecchio.

Ma il punto è un altro: tutti gli attori sanno perfettamente che, se anche un processo verrà indetto, esso sarà in contumacia, i familiari delle vittime riceveranno forse un risarcimento, ma l’impunità continuerà a regnare nel Paese dei Cedri e i sei anni di indagini del Tribunale, i cui costi sono stati in larga parte sostenuti dai contribuenti libanesi, rischiano di aver fatto solo molto rumore per nulla.

Ma c’è anche un altro aspetto della questione, per certi versi assai più pericoloso: le forze politiche non riusciranno mai a trovare un accordo su una sola verità verso cui, dall’altro lato, i cittadini libanesi hanno perso interesse. Mentre le rivoluzioni arabe chiedono libertà e democrazia in tutta la regione, è legittimo chiedersi dove sia finito il popolo della Rivoluzione dei Cedri che, precocemente rispetto ai vicini, già nel 2005 era sceso in piazza per rivendicare la sovranità del Libano, la cacciata dei siriani (presenti militarmente nel paese dal 1976) e la verità su chi e perché avesse fatto esplodere la bomba sulla corniche di Beirut che aveva ucciso Rafic Hariri e altre 22 persone.

La Rivoluzione dei Cedri fu senza dubbio una delle espressioni più elevate della democrazia libanese e sembra lontana mille anni dall’immagine odierna del Libano. Se da una parte ci si racconta che la verità sull’attentato del 14 febbraio 2005, qualsiasi essa sia, è troppo rischiosa per l’equilibrio di questo piccolo stato arabo, dall’altra sembra che i libanesi siano soprattutto stanchi di una politica della segretezza che le élites sciite vanno a confezionare a Damasco e quelle sunnite a Riad.

Ma la trasparenza sugli eventi e gli affari della res publica, in una vera democrazia, non è soltanto un diritto dei cittadini, bensì un dovere dei governanti; prima ancora che qualcuno la rivendichi, le autorità hanno l’imperativo etico di rivelarla o almeno, come succede anche nelle migliori democrazie, di offrirne una versione. Nel corso degli ultimi mesi in Libano otto cittadini estoni sono stati rapiti nell’oscurità più nera delle circostanze; quando gli ostaggi sono stati rilasciati, si è saputo che erano finiti in Siria, ma nessuno ha dato conto né delle cause, né dei moventi, né tantomeno dei responsabili del rapimento. Ci sono stati due attentati contro le forze internazionali di Unifil (prima il contingente italiano e poi quello francese), ma i responsabili – a quanto pare – si sono dileguati nel nulla. Poco più di una settimana fa un’autobomba è esplosa (troppo presto rispetto ai programmi e uccidendo solo i due attentatori) in un parcheggio di Verdun, un quartiere sunnita della capitale libanese. Quale fosse l’obiettivo e chi la mente dell’attentato restano tuttora sconosciuti.

Dietro questa catena di eventi c’è un palese tentativo di destabilizzare il Paese dei Cedri, ma il rendiconto su di essa, se mai è stato fatto, è avvenuto a porte chiuse nei palazzi del potere e non certo di fronte ai cittadini. Cosa resta, dunque, di quella che viene ancora comunemente definita l’unica democrazia del mondo arabo (estremamente imperfetta, come tutte le democrazie, ma pur sempre una democrazia)?

Il problema del Libano è stato spesso identificato nel suo confessionalismo politico, ovvero l’obbligo costituzionale di veder rappresentati tutti i cittadini in parlamento non in quanto cittadini ma in quanto membri di una comunità confessionale. Ma quello che in realtà fa più fa male a questo Paese è piuttosto la sua negata sovranità, sempre agognata ma mai realmente appartenuta ai libanesi: durante il mandato del sunnita Saad Hariri abbiamo assistito alla “saudizzazione” della politica libanese, e poi, con la presa di potere di Hezbollah, alla sua “sirianizzazione”.

C’è solo un modo, assai difficile da realizzarsi, perché questo minuscolo stato arabo, che vanta un passato fenicio e una miracolosa apertura liberale, possa salvarsi: le élites politiche dovrebbero una volta per tutte disancorarsi dalle sue relazioni di patronage politico nella regione. Altrimenti quella che Michael Hudson, un celebre studioso del mondo arabo, aveva definito già molti anni fa una “repubblica precaria” finirà inevitabilmente per esaurire lo scarto tra precarietà e collasso.