Aung San Suu Kyi, l’eroina del popolo birmano, premio Nobel per la pace, ha incontrato il presidente del parlamento Thein Sein. Un dato storico, dal momento che la 66enne figlia del leggendario ”Bogyoke” (maggior-generale) Aung San (colui che nel 1942 costituì l’Esercito d’Indipendenza Birmano, liberando il Paese dal gioco britannico e in seguito giapponese) è da sempre considerata il nemico numero uno del regime.
Da quando, almeno, tornata in Birmania nell’88 dopo aver studiato in Inghilterra ed essersi sposata con un professore di Oxford, vide nel suo Paese instaurarsi una dittatura militare dai connotati marxisti. Decise di costituire la Lega Nazionale per la Democrazia, partito che, il 27 maggio del ’90, stravinse le elezioni. Ma la Giunta militare le invalidò, dichiarando la formazione politica illegale e dando ad Aung San gli arresti domiciliari. Arresti durati fino al 13 novembre 2010, pochi giorni dopo le elezioni considerate da molti osservatori internazionali falsate.
In ogni caso, l’incontro con il presidente, avvenuto a Naypyitaw, la nuova Capitale costruita 5 anni fa a 330 chilometri dalla vecchia, Yangon, avrebbe un’importanza storica. La pensa così Francesco Sisci che, interpellato da IlSussidiario.net, spiega: «per capire il significato di questo incontro bisogna tenere in considerazione un fatto precedente: ci sono state, anzitutto, delle elezioni “abbastanza” democratiche, in cui ha vinto una formazione che non era ostile alla giunta militare. Si è trattato del primo passo verso una transizione che ha permesso ai generali di uscire di scena senza subire processi o ritorsioni. Del resto, se si fosse tentato di far fuori i militari che, fino ad allora, avevano guidato il regime (ormai al collasso), questi, messi alle strette, avrebbero dato battaglia fino alla fine».
Oggi, si è verificato un altro passaggio decisivo: «L’opposizione storica al regime militare ha accettato un contatto con il presidente, un ex generale considerato interlocutore affidabile». La transizione, spiega Sisci, «è stata facilitata dai cinesi», il cui obiettivo è ambizioso; «se riuscissero a portare a termine l’impresa stabilirebbero un precedente estremamente importante, tanto più che l’America sta tentando di esportare con la forza la democrazia in Paesi come l’Iraq, l’Afghanistan, e la Libia senza riuscirci. Non è detto che abbia successo, ma il procedimento sta iniziando a innescarsi».



Sisci frena sull’ipotesi che la Cina, con un’operazione del genere, possa accreditarsi come interlocutore mondiale autorevole: «Non mi spingerei così in là. Ripeto: da una parte vediamo un processo che va avanti. Dall’altra un continuo nascere di focolai di tensione».
In ogni caso, si tratta di un dato interessante «per le prospettive che si aprono sul piano internazionale, a prescindere dalla situazione birmana». Se si tratti di una semplice apertura, tesa a mostrare al mondo che la Birmania sta cambiando, o il preludio del ritorno di Suu Kyi alla politica «è difficile dirlo, siamo ancora nelle primissime fasi. Non sappiamo, del resto, neanche quale sia stato il contenuto del colloquio».  

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