Oggi al Meeting di Rimini parlerà Austen Ivereigh, giornalista e intellettuale britannico, fondatore dell’“esperimento” Catholic Voices, movimento nato alla vigilia della visita di Benedetto XVI nel Regno Unito del settembre 2010, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla bontà di una razionalità aperta alla fede, per aiutare – dice Ivereigh – «la Chiesa a trovare la sua voce pubblica e ad impegnarsi più profondamente nella sfera pubblica». Ilsussidiario.net lo ha intervistato.
Austen Ivereigh, lei partecipa ad un incontro pubblico dedicato ad un “nuovo umanesimo” nel Regno Unito, scaturito dal viaggio di Benedetto XVI. Lo può documentare? Da cosa dipende secondo lei?
L’idea di una conferenza su un nuovo umanesimo ispirato dalla visita di Papa Benedetto nel Regno Unito è stata un’intuizione nata dalla sensazione istintiva che la visita ha aperto un nuovo orizzonte per noi. Ero presente al famoso discorso di Westminster Hall, quando Benedetto XVI ha rivolto un dolce ma appassionato appello per un connubio tra fede e discorso pubblico. Riflettendoci dopo, soprattutto alla luce del successo della visita, ho sentito che il progetto che io avevo co-fondato in preparazione per la visita, Catholic Voices, aveva un chiaro capitolo successivo – aiutare la Chiesa a trovare la sua voce pubblica e ad impegnarsi più profondamente nella sfera pubblica. Voleva dire portare i cattolici e i cristiani che pensano in modo simile a sviluppare posizioni comuni su temi pubblici chiave: un nuovo “umanesimo spirituale”, se vogliamo. (Non sono sicuro che questo sia il termine giusto. Negli anni ’30, Jacques Maritain ha parlato di “umanesimo integrale”. Ma l’idea è chiara: non è l’umanesimo individualista del liberalismo, ma un umanesimo aperto alla ricchezza della fede). Abbiamo creato Catholic Voices Academy, che continuerà a sviluppare quest’umanesimo attraverso incontri regolari a partire da ottobre. Quando ho parlato di questo ad Adrian Pabst e John Milbank, con i quali ho fatto un incontro pubblico al Meeting l’anno scorso, essi sono stati entusiasti. Esiste già questo umanesimo? Sì, in embrione – non soltanto con il lavoro di intellettuali come Milbank, Pabst e Phillip Blond, ma anche per esempio, per una serie di colloqui e conferenze organizzati dai vescovi d’Inghilterra e Galles con il titolo “A call to a deeper social engagement” (“Una chiamata ad un impegno sociale più profondo”, ndr) che fa riferimento esplicito all’invito rivolto dal Papa a Glasgow ai cattolici inglesi affinché assumessero il loro ruolo nella sfera pubblica. Non c’è dubbio che la visita del Papa abbia già dato frutti in questo senso.
Qual è l’ambito privilegiato nel quale si va formando questo “incontro tra cristiani nel Regno Unito? È quello della coscienza individuale o delle formule del vivere sociale? Perché?
Non è ancora un movimento, ancora meno un flusso di pensiero identificabile; è più un’opportunità, un orizzonte che si apre all’improvviso originato in parte dalla visita papale e in parte da ciò che nel mio discorso a Rimini quest’anno chiamo una crisi del progetto liberale, il riconoscimento che una democrazia efficace e l’economia dipendono dalle virtù e dai valori della cultura più ampia. Questo avviene quando, come sta accadendo ora, abbiamo una serie di crisi di ordine morale nelle nostre maggiori istituzioni sociali – il mercato, lo Stato, il Parlamento, i media e, naturalmente, il tumulto recente – che portano a riconoscere che il rinnovamento deve venire dall’esterno rispetto a questi fattori. Ma da dove? Questa è l’opportunità, il momento particolare che stiamo vivendo, a cui la visita papale – con il suo appello rivolto alla sfera della ragione e della politica ad aprirsi alla saggezza della fede – ha parlato in modo molto diretto e forte.
Come può l’insegnamento della dottrina sociale cattolica sulla ragione e sul bene comune essere convincente in una società secolarizzata come quella inglese (ma non solo)? Perché?
Andrew Brown, l’editore della eccellente pagina del Guardian “Comment is Free Belief” (“Un commento è un libero credo”), ha scritto un pezzo di recente spiegando perché è ateo e perché, anche se fosse cristiano, non sarebbe mai cattolico. Ma poi dice: “L’insegnamento sociale cattolico e i tentativi di produrre un’economia centrata sulle esigenze degli esseri umani, piuttosto che sui soldi, appare essere l’unica alternativa ponderata al capitalismo sfrenato del mercato – e di certo l’unica che ha la possibilità di un diffuso sostegno popolare”. Come possiamo incrementare questa opportunità? Questa è la domanda chiave. Come si fa a tradurre le intuizioni della dottrina sociale cattolica – e, vorrei aggiungere, l’insegnamento di questo Papa sulla libertà religiosa – in termini che sono (a) comprensibili e (b) pertinenti a questo nuovo orizzonte aperto dal fallimento del progetto liberale? Certo, questo è la sfida del nuovo umanesimo di cui sto parlando: riusciamo a mettere in correlazione queste cose? Direi che con Catholic Voices, un progetto mediatico cominciato sei mesi prima della visita papale con il compito specifico di imparare a spiegare la posizione della Chiesa in termini concisi, umani e convincenti (il linguaggio di un’intervista in tv di tre minuti), su questa strada abbiamo fatto una buona partenza. Quello che abbiamo imparato non è soltanto un insieme di argomenti e di ragioni, ma anche una mentalità, un atteggiamento di apertura e trasparenza che è il presupposto del linguaggio pubblico. Un altro passo necessario è quello di riunire i cattolici con posizioni comuni. Qualche mese fa, John Allen, il veterano dei giornalisti cattolici Usa, ha scritto un pezzo affascinante in cui lamentava quello che lui ha definito il nuovo tribalismo cattolico – cattolici che si identificano in due campi, “pro-giustizia” vs. “pro-life” – e ha detto che occorrevano “zone di amicizia”, in cui cattolici con punti di vista diversi potessero riunirsi. E ha citato Catholic Voices, insieme ai Focolari e a Salt and Light Television come esempi di questo. Così, elaborare posizioni comuni è un processo ad intra necessario, da cui dipendono la credibilità e il fascino di questo nuovo umanesimo. E può richiedere molto tempo. La terza cosa che deve accadere è la traduzione dei principi della dottrina sociale cattolica in termini e concetti che abbiano una presa universale. Questo succederà, credo, quando i cattolici impareranno meglio a trovare le soluzioni ai problemi e alle contraddizioni dall’interno della loro viva tradizione di dottrina sociale cattolica.
Quale ruolo specifico possono avere i cattolici e la Chiesa cattolica in UK? Questo ruolo si configura in modo diverso dal passato?
Penso che i cattolici inglesi abbiano un vantaggio rispetto ai cattolici in Italia, Francia e Spagna per questa ragione: nessuno ha paura che noi tentiamo di conquistare lo Stato. Siamo una minoranza importante – circa il 10 percento della popolazione; tra uno e due milioni di noi andiamo in chiesa la domenica, più di qualsiasi altro gruppo religioso, compreso anche gli anglicani della maggioranza – ma comunque una minoranza. Tradizionalmente, abbiamo mantenuto un basso profilo, in parte come retaggio di secoli di persecuzione, in parte perché eravamo una chiesa-ghetto identificata con una popolazione immigrata, e in parte a causa della Chiesa esistente. Ma nessuna di queste cose è più importante. Anche se i cattolici continuano ad aumentare di numero grazie all’immigrazione, soprattutto dai paesi in via di sviluppo e dall’Europa orientale, la maggior parte dei cattolici sono nati e educati in Gran Bretagna, sono della classe media e si possono trovare i cattolici in posizioni elevate in tutte le professioni. E a causa della secolarizzazione, la “britannicità” non coincide più con l’anglicanesimo. Infatti siamo sempre più vicini agli anglicani e agli altri cristiani nel difendere la fede da una laicità ostile. Quindi, sì, penso che i cattolici britannici siano pronti a svolgere un ruolo diverso da quello del passato. E sempre di più – e soprattutto dopo la visita papale – credo che siamo inclini a vedere noi stessi come portatori di doni vitali da offrire alla società britannica. Siamo uno dei principali attori della società civile e forse è ora per noi di essere più audaci nel suggerire che, con la dottrina sociale cattolica, abbiamo una risorsa per aiutare a rispondere alle domande di oggi.
Nel suo famoso discorso alla Westminster Hall, il papa ha “sfatato” il mito moderno che uno stato contemporaneo non possa reggersi su norme incontrovertibili. È d’accordo? Quali sono? dove ogni persona ragionevole può… trovarle?
Quel discorso è stato un punto di riferimento. Come ho detto nel mio discorso al Meeting, il momento più importante è stato prima del suo arrivo. Ero tra il pubblico nella Hall, dove una lapide a San Tommaso Moro ci ricorda che questo è il posto dove fu martirizzato per essersi rifiutato di accettare che il potere temporale potesse usurpare quello spirituale. Stavo seduto e guardavo l’intero establishment politico della Gran Bretagna in paziente attesa per l’arrivo del successore di San Pietro. E ho pensato: il mito della nazione protestante – l’idea che la nazione britannica è nata nella difesa del Protestantesimo – adesso è morto per sempre! È stato davvero un momento straordinario. Il discorso del Papa era magnifico, ma non sono sicuro quanto è stato sentito dai presenti – l’acustica non era buona e il Papa stesso parlava in modo molto pacato. Ma il cuore di quello che ha detto – che la ragione deve aprirsi alla fede, non soltanto per il bene della ragione ma anche per i bene della fede – era chiaro in quello stesso momento per il fatto che la classe politica della Gran Bretagna lo stava ascoltando attentamente. Ha reso onore alla grandezza del Parlamento e della democrazia britannica, e ha ricordato ai presenti che la maggiori conquiste del Parlamento si sono verificate precisamente quando la fede ha contribuito a stimolare il cambiamento; come, notoriamente, il movimento per l’abolizione della tratta degli schiavi. E ha ribadito che l’esclusione della fede dalla sfera pubblica è pericolosa per la democrazia. Aveva in mente, anche se era troppo educato per dirlo, la chiusura della agenzie di adozioni cattoliche nel 2007 e 2008, secondo le leggi contro la discriminazione delle persone omosessuali nella fornitura di beni e servizi. È stato un momento determinante per la Chiesa. Significava che le organizzazioni della società civile ispirate dalla fede, se erano in disaccordo con certe posizioni ideologiche, non potevano più contare sul sostegno pubblico. È stato un momento preoccupante per la Chiesa e per la democrazia britannica, che tradizionalmente ha messo la fede alla pari con le credenze secolari nella sfera pubblica. Dopo, era chiaro che la Chiesa non poteva più contare sullo Stato e doveva organizzarsi e imparare a esprimersi meglio sulla pubblica piazza: è per questo che la visita papale era un argomento contro il secolarismo aggressivo e in favore della fede in dialogo con la ragione. Questo è il cuore della tesi espressa nel discorso a Westminster Hall: l’esclusione della fede dalla sfera pubblica finirebbe per minare le libertà democratiche in nome delle quali proprio la fede è stata esclusa. O, in positivo, la libertà politica si fonda innanzitutto sulla libertà religiosa. È stato un argomento magnificamente svolto in un ambiente estremamente simbolico. Non potrò mai dimenticarlo.
La tradizione britannica, così attenta alla preoccupazione per la libertà e il benessere del singolo, riesce a far fronte alla spinta del secolarismo nichilistico dei giorni nostri? Con quali conseguenze? Cosa le “manca”?
Ecco il punto. Il liberalismo britannico è da tempo capace, in modo collaudato, di gestire e conciliare interessi diversi. Ma il rispetto per l’autonomia, che è la pietra angolare di questa filosofia, non è in grado di rispondere alla sfida molto diversa di questo nuovo tempo, che è essenzialmente culturale: è la cultura da cui la politica, l’economia e la società dipendono che si è dimostrato carente. Il progetto liberale, efficace in così tante soluzioni, ha raggiunto i suoi limiti; non riesce a generare le virtù e i valori necessari per una sana democrazia ed economia. Il mercato, come la crisi del 2008 ha mostrato, non può funzionare da solo. Una continua espansione dello Stato crea più problemi di quelli che si propone di risolvere. Le risorse morali per risolvere questa crisi non possono venire dal mercato e dallo Stato da soli. Il mercato è un meccanismo per riunire acquirenti e venditori, ma non può definire il bene umano; allo stesso modo, la democrazia è un sistema per la risoluzione delle controversie, non un’autosufficiente fonte di moralità. Una società non può funzionare quando si è dedicata principalmente alla coltivazione del desiderio individuale. Il progresso definito come l’espansione infinita di opportunità per l’esercizio dell’autonomia personale, è insufficiente. Il progetto liberale, a quanto risulta, era sempre stato debitore ad alcune virtù socialmente necessarie – la sobrietà, la frugalità, l’autocontrollo – che le ambizioni del progetto – l’espansione di autonomia e la soddisfazione del desiderio – hanno inconsapevolmente minato. La domanda, quindi, è come creare un nuovo tipo di cultura, capace di inculcare valori e virtù, il senso di uno scopo comune, e una concezione condivisa del bene comune. La cultura deve essere esaminata secondo dei criteri etici che non sono creati da lei. Tali criteri devono essere razionali e sistematici così come la scienza economica stessa, devono essere basati su una visione filosofica coerente, in grado di fornire le proprie risposte a domande sulle motivazioni e sul destino umano. Rispondere a queste domande è sempre stata il compito delle grandi tradizioni di fede, cosa che molti dei fondatori della moderna economia politica hanno riconosciuto e che sempre più, oggi, stanno riscoprendo. Questo è il nuovo orizzonte che si apre.
Lei è un giornalista. Ha scritto che criterio ispiratore del giornalismo non è tanto quello di raccontare storie (di persone), quanto porsi al servizio della società civile per cambiare lo Stato. può spiegare meglio questo pensiero?
Non ho mai detto che il lavoro del giornalismo non è quello di raccontare storie, al contrario! Se il giornalismo è una industria, le storie sono il suo prodotto: è quello che il giornalismo produce e vende. Le storie sono la linfa vitale del giornalismo, e l’abilità del giornalismo sta nel trovarli e raccontarli. La mia osservazione era legata alla crisi attuale di finanziamento del giornalismo, che i recenti scandali delle intercettazioni nel Regno Unito hanno evidenziato in modo così vivido. La pressione sui media, e soprattutto sui giornali, è in continua crescita, a causa del calo delle entrate pubblicitarie e della proliferazione dei media alternativi su Internet. Per vendere più giornali, i tabloid hanno invaso sempre più la vita privata delle persone al fine di generare storie, con un impatto sufficiente a convincere i lettori a comprarli. I tabloid, a loro volta, hanno sovvenzionato i giornali di qualità – si vede questo con News International, in cui The Times, per esempio, perde una grande quantità di denaro, ma è sovvenzionato dal gruppo intero. Ciò significa che il giornalismo di qualità è sempre più dipendente dalle aziende o da grandi interessi finanziari; sta diventando sempre più invischiato con il mercato, e penso che questa sia una delle ragioni della crisi in cui si trova essendo i giornali (e implicitamente i loro lettori) sempre più mercificati. Il mio rilievo era che il primo dovere del giornalismo è quello di responsabilizzare lo stato e il mercato a nome della società civile, e credo che questo diventi difficile quando i media dipendono per il finanziamento o dallo stato o dal mercato. Allora, quello che mi chiedo è se il futuro del giornalismo di qualità sia da trovare sempre di più nelle organizzazioni forti della società civile, come, per esempio, questo giornale dimostra. Penso che sia più facile in Italia, dove si ha una società civile forte, che in Gran Bretagna, dove le istituzioni intermedie sono più deboli. Ma io non credo sia difficile immaginare che, in futuro, le grandi istituzioni dei media saranno legate di più alla società civile che ai grandi interessi finanziari.
I recenti avvenimenti in Gran Bretagna, a Londra e in altre città inglesi, hanno mostrato i risultati estremi della deriva nichilistica in corso nella nostra società: l’individualismo, la soddisfazione dei propri istinti e la voglia di avere e consumare. Qual è la sua opinione su quanto successo?
Ci sono molte versioni di quanto è successo e penso ci sia della verità in ciascuna di esse. Si è trattato, ovviamente, di “criminalità pura”, tuttavia la maggioranza di quelli coinvolti non erano criminali, ma spettatori occasionali. Si è trattato di un sintomo di povertà, tuttavia la povertà vera non era tanto quella materiale, in realtà molti dei saccheggiatori avevano lavoro e redditi, quanto quella derivante dalla alienazione. Francamente, abbiamo un numero enorme di giovani annoiati e arrabbiati, senza autostima e uno scopo, che non hanno nessun senso di appartenenza a una cosa come la società: 600mila giovani hanno lasciato la scuola e non hanno mai lavorato neppure per un giorno nella loro vita. A Londra, la loro lontananza dai meccanismi di scambio è ancora più forte, perché i livelli di disuguaglianza nella capitale sono più alti rispetto al resto del Paese, i più elevati dagli anni ’60. Londra ha un’alta, e crescente, percentuale di famiglie interamente dipendenti dai sussidi statali, dove il tassodi divorzi e di problemi familiari è a livelli record. Questo tipo di famiglie si trova soprattutto nelle zone nord e est della città, che sono state le più colpite dai disordini. Il disagio è però più generale e non è limitato geograficamente. Io vivo a Westminster, nel centro di Londra, un’area che si potrebbe immaginare al riparo dai disordini. Tuttavia, durante quei quattro giorni, decine di giovani che abitano in fondo alla mia via sono andati a Chelsea, un zona vicina famosa per lo shopping, e hanno attaccato un negozio di Hugo Boss rubando una quantità di vestiti. Due di loro sono stati arrestati e processati e non sembravano davvero criminali incalliti. Uno di loro era un promettente giovane calciatore. Erano stati presi dall’attrazione magnetica della “roba gratis” e dalla folle sensazione che, in quei primi due giorni, la polizia avesse perso il controllo della situazione. Per inciso, questa è una spiegazione semplice per ciò che è successo:la polizia è stata colta di sorpresa e ha considerato l’inizio dei disordini come un problema localizzato di ordine pubblico invece di ciò che e rapidamente diventato, e cioè l’espandersi per la città di saccheggi compiuti per emulazione. La mancanza di una ferma posizione all’inizio ha permesso che i disordini durassero quattro notti. Credo che i disordini saranno significativi per questo governo. Sotto vari aspetti, essi aiutano Cameron nella sua tesi di una Gran Bretagna a pezzi per riparare la quale è necessario ciò che lui chiama la Big Society. Ma il disagio è più profondo: per molti versi, i disordini rappresentano il fallimento del progetto liberale, almeno quanto la recente crisi del mercato e del giornalismo, di generare valori e virtù dai quali dipende la nostra libertà. Affrontare questi problemi richiederà generazioni, ma io temo che, piuttosto che vedere le cause di questo profondi malessere, preferiremo adottare una serie di misure di polizia, molte anche autoritarie, che servono solo a rafforzare lo Stato, ma non a rinvigorire la società civile, la sorgente ultimamente di quegli stessi valori e virtù. Ma non voglio essere pessimista: è anche vero che c’è in giro molto pensiero nuovo ed eccitante, anche dal governo, che suggerisce che questa crisi è al contempo un’opportunità per guardare alla strada che abbiamo intrapresa e renderci conto che davanti a noi ci sono altre strade.