Mentre Gheddafi traballa, Assad bombarda i rivoltosi per terra e per mare. Se dalla sponda nord del Mediterraneo, squassato dal ciclone finanziario, lo sguardo si sposta sul vicino Medio Oriente, sembra riproporsi un copione già visto: da una parte regimi dittatoriali corrotti, dall’altra il popolo che, malgrado la repressione, domanda a gran voce e a rischio della vita cambiamenti e libertà. La velocità della propagazione della rivoluzione dipenderebbe solo dalla maggiore o minore crudeltà del dittatore di turno e delle sue forze di sicurezza. Questa la lettura dominante, ma siamo sicuri che sia davvero la più adeguata?
Intendiamoci: la spinta per il cambiamento c’è tutta. Un clima di inedita libertà attraversa tanti Paesi della riva sud del Mediterraneo. Ma le parole d’ordine (libertà, ad esempio, o dignità, diritti o riforme) vanno poi tradotte sul campo. E lì rispuntano le differenze da Stato a Stato, le diverse storie, i cammini percorsi dopo l’indipendenza, il rapporto con l’Occidente. Prendiamo il caso della Siria. Un regime autoritario, in cui la presidenza della repubblica si trasmette di padre in figlio con percentuali bulgare di consenso. Un intrico di servizi segreti militari e para-militari che controllano tutti gli aspetti della vita dei cittadini, secondo prassi consolidate fin dall’epoca dell’alleanza con Mosca e della via araba al socialismo. Un sistema di industrie di Stato, timidamente riformate negli ultimi anni, che faticano a tenere il ritmo della crescita demografica.
Fin qui la dialettica riforme-autoritarismo sembra funzionare alla perfezione. Ma la Siria è anche, a differenza della Tunisia e molto più dell’Egitto, un Paese multietnico (arabi e curdi) e soprattutto multi-confessionale, con una maggioranza sunnita, non esente da tentazioni fondamentaliste, una consistente presenza cristiana (intorno al 10%) e una vasta minoranza sciita al cui interno si distingue per importanza il gruppo degli alawiti, una fede sincretista che unisce credenze islamiche a elementi della religiosità cristiana e addirittura pre-cristiana. Da questo punto di vista, più che la primavera araba, vale molto di più il parallelo con il vicino Iraq (a parti invertite: lì era la minoranza sunnita a comandare, a Damasco invece il potere è in mano agli alawiti) o con il Libano degli anni Ottanta: cioè con scenari, se vogliamo usare la parola esatta, anche se terribile, da guerra civile, con il rimpallo di accuse tra insorti (non sempre pacifici) e forze dell’ordine, il coinvolgimento dei civili e le ingerenze straniere.
Il problema infatti è che la primavera araba, a Damasco, si è fin da subito frantumata lungo linee settarie. Nei mesi scorsi diverse personalità avevano sollecitato l’apertura di un dialogo. In quelle occasioni si era potuta misurare la saggezza di chi, pur in un contesto di forti pressioni, si era negli anni prudentemente mantenuto su un piano dei principi (“Siria terra del pluralismo e della convivialità”, come ricordato anche da Giovanni Paolo II durante la sua storica visita del 2001), laddove altri, anche in ambito ecclesiale avevano ceduto alle lusinghe del culto della personalità e si ritrovavano di colpo privi di ogni credibilità. Purtroppo questi appelli sono caduti nel vuoto. Ora lo scontro cresce d’intensità e il molto sangue versato in questi mesi non lascia presagire nulla di buono per il futuro. Molti cristiani, tradizionalmente legati al regime, temono apertamente un nuovo Iraq con strascichi di vendette ed esodi forzati. D’altra parte la repressione di Assad si è già dimostrata durissima.
Se dunque c’è una lezione da apprendere dai fatti di questi giorni, oltre alla preoccupazione per l’avvenire della Siria, è che la primavera araba non fa astrazione del passato. Le rivoluzioni liberali, come ha scritto Olivier Roy, non sono “la fine della storia”. Ed è anche per questo che il prossimo numero della rivista Oasis, disponibile in anteprima al meeting di Rimini, indagherà la stagione delle rivoluzioni a partire da quella millenaria frattura tra sunniti e sciiti che, in Siria come in Libano, in Iraq come nel Golfo, rappresenta un fattore altrettanto importante, anche se meno noto, della spinta di libertà che il cambiamento strutturale della primavera araba ha immesso nella regione.