I quattro giornalisti italiani rapiti in Libia da un commando di banditi e consegnati ai fedeli di Gheddafi sono stati liberati da due giovani. Il loro carceriere pare avesse già abbandonato il luogo della loro prigionia nella notte. I 4, Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, Domenico Quirico de La Stampa e Claudio Monici di Avvenire, si trovavano sulla stessa auto, quando nella mattinata di mercoledì sono stati assaliti da un gruppo di miliziani che hanno ucciso l’autista. «Si tratta di delinquenti che, con ogni probabilità, speravano di ottenere una sorta di “assicurazione sulla vita” una volta finita la guerra. Sempre meglio, in ogni caso, dei terroristi iracheni», afferma il giornalista di guerra Fausto Biloslavo raggiunto da ilSussidiario.net.  Il nostro console a Bengasi, Guido De Sanctis, per tutta la durata del rapimento è rimasto in contatto con i reporter. Si trovavano – ha spiegato – in una casa privata, a Tripoli, tra Bab Al-Aziziya e l’Hotel Rixos. Durante la prigionia pare che siano stati trattati bene e che abbiano ricevuto acqua e cibo. Dai sequestratori non era giunta alcuna richiesta di riscatto. Biloslavo, che ha una lunga e diretta esperienza della guerra, e sa bene cosa significhi cadere in mano a dei rapitori (nell’87 fu catturato e tenuto prigioniero a Kabul, in  Afghanistan, per sette mesi, e liberato grazie all’intervento dell’allora presidente Cossiga), spiega: «Si diventa non più testimoni ma soggetti del reportage. Ci si trova in una situazione di totale incertezza. Ma, nonostante tutto quello che si può subire, i locali che si trovano assieme a te, se la passano molto peggio. Non a caso, l’autista che si trovava con loro è stato ucciso». I cronisti liberati hanno dedicato a lui il loro primo pensiero. A loro, è andata meglio. «Ero ottimista circa la loro liberazione – continua Biloslavo -. Per fortuna le mie previsioni si sono rivelate corrette». Strana l’assenza di richiesta di riscatto. «Non si tratta di questo, infatti. La situazione è da scenario pseudo-iracheno. Tuttora le opposte fazioni sono dislocate a chiazza di leopardo, con alcune case o quartieri in mano ai lealisti, altre in mano ai ribelli. I civili armati da Gheddafi, quando li hanno intercettati, devono aver pensato di rapirli non per chiedere un riscatto, ma perché, probabilmente, li hanno associati al nemico, alla Nato». Poi, devono aver compreso che, qualcosa, nel loro piani, non funzionava. «Contestualmente, infatti, sono stati liberati anche i 35 giornalisti internazionali segregati al Rixos di Tripoli. In entrambi i casi non è escluso che abbiano compreso che, persistendo nel trattenerli, non avrebbero fatto altro che aggravare la propria situazione. L’averli liberati, invece, potrebbe tornar loro utile nell’immediato futuro». 



Eppure, i giornalisti dovrebbero essere tutelati da norme internazionali, e considerati, dalle fazioni in campo, soggetti neutrali. «Stiamo parlando di tagliagole, da una parte e dall’altra. Che non credo conoscano la Convenzione di Ginevra…». In ogni caso, Biloslavo fa presente che, nel corso del rapimento, le cose sarebbero potute andare molto peggio. «Si è potuto comunicare con loro e si sapeva che erano stati portati a Tripoli. La situazione è rimasta relativamente sotto controllo. Ricordiamoci, in fondo, che i libici sono tutto sommato “brava gente”. Se una cosa del genere fossa capitata a Fallujah, in Iraq, ad esempio, non ne avremmo più saputo niente e dopo mesi sarebbe rispuntato un video con i giornalisti legati, bendati e con un coltello alla gola». Le informazioni su di loro, poi, si sono rivelate molto più dettagliate di quelle di cui si disponeva in episodi analoghi. «Il console è rimasto in contatto con loro. Sono convinto che siano state attivate tutte le nostre “antenne” a Tripoli, i nostri contatti; si sapeva, inoltre, esattamente dove erano intrappolati. Claudio Monici aveva detto che vedeva, da dove si trovava, il centro commerciale della figlia di Gheddafi. Io stesso, facendo un po’ di telefonate, ho avuto conferma del luogo: si tratta di un centro di cui mi ricordo bene: si trova a Mansoura, un quartiere di Tripoli dove sono presenti sia lealisti che ribelli. Lì si combatte, ma non con la stessa intensità che altrove».



Si pensava di attendere, forse, che la situazione tornasse più calma per eventuali blitz? «Difficile che sia stato programmato. Credo che fino all’ultimo si sia tentato di risolvere pacificamente la questione. Si sarà cercato di capire che cosa volessero ottenere queste persone. Può darsi, appunto, che speravano di assicurarsi una sorta di salvacondotto». Che la vicenda, in ogni caso, sia drammatica, è fuori discussione. «L’importante è sapere quando fare un passo indietro. Perché la vita è più importante di un pezzo da scrivere. Claudio lo conosco bene, è un reporter navigato ed esperto. Me lo ricordo in Rwanda, nel ’94, quando ci fu il genocidio e sono sicuro che abbia adottato tutte le precauzioni necessarie. Si tratta, purtroppo, – conclude – di rischi che, nel nostro mestiere vanno messi in conto».



 

(Paolo Nessi)