Un programma per fare uscire i cristiani pakistani dalle discriminazioni e dall’isolamento cui sono costretti dalla maggioranza musulmana. Lo rivela Paul Jacob Bhatti, fratello di Shahbaz Bhatti, il ministro cattolico per le minoranze religiose massacrato da una cellula di terroristi islamici il 2 marzo scorso. Come sottolinea Paul, l’idea di Shahbaz era che i cristiani pakistani potessero riscattarsi con le proprie forze, non recriminando per le ingiustizie, ma impegnandosi per un’educazione più approfondita, un lavoro migliore e una piena rappresentanza politica. Quando è morto Shahbaz, Paul Jacob ha lasciato il suo lavoro di chirurgo in Italia ed è rientrato in Pakistan, per proseguire l’opera del fratello come consigliere del primo ministro e presidente del partito Alleanza delle minoranze. Oggi Paul Jacob Bhatti interverrà al Meeting di Rimini, Ilsussidiario.net lo ha intervistato in anteprima.



Suo fratello Shahbaz è stato visto da molti come un esempio di fede vissuta in modo eroico. Qual era l’origine di questa fede?

All’origine c’era innanzitutto l’educazione ricevuta dai nostri genitori, che avevano una volontà molto forte di fare crescere i loro figli come dei veri cristiani. E poi mentre crescevamo abbiamo sempre avuto una comunità cattolica intorno a noi. A un certo punto in mio fratello è successo improvvisamente qualcosa: tutta la formazione religiosa che aveva ricevuto ha interagito con alcune discriminazioni dei cristiani contenute in alcune leggi del governo. Shahbaz ha deciso che doveva combatterle, e i risultati che ha ottenuto sono stati ottimi, soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza politica dei cristiani. Ma soprattutto, mio fratello voleva un trattamento uguale per tutti indipendentemente dal fatto che fossero cristiani, indù o musulmani.



Perché dopo la morte del fratello ha scelto di tornare in Pakistan, anche a costo di rinunciare alla sicurezza acquisita in Italia?

Perché mio fratello aveva avviato un’opera grandiosa per tutti i cristiani dando la vita per continuarla, e ho capito che senza una guida sarebbe andato tutto perduto. Inoltre il governo pakistano mi ha offerto la possibilità di proseguire il suo lavoro. Quando ho visto che si poteva fare qualcosa di buono per i cristiani, e non solo per loro ma per tutta la gente che ha bisogno, non mi sono voluto tirare indietro.

Non sempre però il governo pakistano si è impegnato per difendere i cristiani. Perché ha accettato comunque di collaborare con il primo ministro?



Più che aver deciso di collaborare con il governo, ho scelto di continuare l’importante opera che mio fratello mi ha lasciato in eredità. Il governo mi ha offerto questa carica politica che è un aiuto per proseguire il lavoro di Shahbaz. Del resto la volontà di collaborazione del governo è abbastanza buona, solo che l’esecutivo è molto instabile perché il partito di maggioranza è alleato con vari altri partiti e quindi non può fare quello che vuole. Ma il presidente della Repubblica e il primo ministro mi sembrano sinceri, onesti e hanno soddisfatto almeno in parte le mie richieste.

 

Lo scorso 19 agosto una bomba in Pakistan ha fatto 47 morti. Che cosa si può fare per fermare il terrorismo?

 

E’ un discorso molto complesso, perché è da una decina di anni che il Pakistan sta affrontando il problema del terrorismo. Purtroppo nessuno sa in quale modo sconfiggere fanatismo, fondamentalismo ed estremismo, e neppure quali siano le vere cause. Il governo sta facendo il possibile, ma ritengo che in questo caso vi sia una responsabilità internazionale per impegnarsi a risolvere il problema, perché il terrorismo coinvolge tutto il mondo.

 

Quali sono le discriminazioni più gravi sofferte dai cristiani in Pakistan?

 

Più che alle discriminazioni, il problema è legato al fatto che i cristiani fanno parte di una comunità molto povera ed emarginata. Attualmente il Paese è molto instabile, con estremismo, fanatismo e un certo odio verso l’Occidente che finiscono per riverberarsi sui cristiani pakistani. Più i cristiani sono emarginati e isolati, e più questi episodi avvengono di frequente.

 

Quali obiettivi si propone nel suo impegno a favore dei cristiani?

Il mio impegno è rivolto innanzitutto alla sensibilizzazione delle minoranze. Tre sono i temi fondamentali: la lotta alla povertà, l’educazione e la salute. Fino a quando i cristiani non hanno un’educazione, un’autosufficienza economica di base e cure sanitarie adeguate, questo li rende più fragili e isolati. Per esempio sono costretti a svolgere i lavori più umili, e di conseguenza è molto più facile che siamo discriminati e maltrattati.

 

La sua idea quindi è che i cristiani debbano impegnarsi per uscire dall’emarginazione?

 

Io ho lavorato per otto anni in Pakistan come chirurgo e non mi sono mai sentito discriminato, anzi ho ricevuto diverse onorificenze. Molto differente invece è la situazione dei cristiani che svolgono i lavori più umili. Ma quando un cristiano ha studiato e ha una buona qualifica professionale, può presentarsi ai musulmani per quello che è veramente, comunicando loro anche i suoi valori.

 

Eppure i media sono pieni di notizie sulle persecuzioni nei confronti dei cristiani pakistani…

Su questo bisogna stare molto attenti. Ci sono Ong o singole persone che hanno creato un vero e proprio business sui cristiani perseguitati. C’è un episodio che è stato emblematico, quello di Farah Hatim. I giornali di tutto il mondo hanno scritto che questa ragazza cristiana era stata sequestrata e convertita forzatamente all’Islam da un giovane musulmano. Mi sono precipitato a fare mille esposti, sono andato a trovarla di persona e alla fine è emerso che questa ragazza aveva da anni una relazione con il giovane musulmano, di cui era innamorata. Quando i familiari si sono opposti al matrimonio, lei è scappata volontariamente con lui. Riportare le notizie in modo errato non fa altro che creare ulteriori problemi fra cristiani e musulmani in Pakistan.

 

Nel corso di un’intervista, riferendosi ai cristiani più poveri e perseguitati, ha dichiarato: “Come posso non vedere Gesù negli occhi di questi fratelli?”. Che cosa intendeva dire?

 

La nostra testimonianza cristiana, come diceva mio fratello, è nei confronti di tutti i poveri. Come insegna il Vangelo, soccorrere le persone abbandonate è come aiutare Gesù. Dare da bere a chi ha sete è come darlo a Gesù Cristo, visitare i carcerati è come visitare Gesù. Queste sono le parole della Bibbia, che mio fratello Shahbaz ha seguito parola per parola. E quindi anch’io, seguendo lui, vedo Cristo in queste persone.

 

(Pietro Vernizzi)

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