E’ cominciato con un rimbombo basso e il pensiero: “Che succede, si stanno muovendo le fondamenta del palazzo?”. Ma quando ho sentito che l’intero nono piano del mio ufficio al National Press Building di Washington cominciava a muoversi, mi è apparso evidente che il mio martedì di lavoro non sarebbe arrivato al termine. Il terremoto che ha colpito la Costa Est degli Stati Uniti il 23 agosto poco prima delle due del pomeriggio, ha obbligato ad evacuare le scuole fino in Canada, mentre in centro fiumi di impiegati e impiegate si riversavano sul National Mall (il viale monumentale della capitale, ndt) e sui marciapiedi circostanti. In Freedom Plaza era il caos: tutti cercavano di rintracciare i colleghi, mandare sms o chiamare i propri cari, cercando intanto di trovare le ultime notizie su quanto era successo. Telefonate o messaggi arrivavano da amici o parenti in località lontane come Chicago o il Messico, che volevano avere notizie sul terremoto. Ovviamente i provider telefonici ben presto sono risultati sovraccarichi e per diverse ore dopo la scossa era quasi impossibile fare telefonate. Diversi edifici pubblici come ad esempio il National Press Building, palazzi governativi o i musei della Smithsonian sono rimasti chiusi per più di un’ora al fine di controllare ogni possibile danno. Quando è stata segnalata la possibilità di tornare in ufficio, in molti hanno preferito andarsene a casa. Questa ora di punta in un momento fuori del comune, il fatto che i semafori fossero andati in tilt e che le metropolitane fossero costrette per motivi di sicurezza a viaggiare a 15 miglia all’ora hanno raddoppiato o triplicato il tempo per arrivare a casa. Le reazioni al terremoto sono state diverse: la maggior parte di coloro che erano stati obbligati a evacuare i loro uffici erano visibilmente scioccati, anche se alcuni approfittavano della rara occasione per vedere in faccia amici normalmente nascosti in innumerevoli uffici  e che adesso si radunavano per le strade. Mentre le voci di danni e notizie sull’impatto della scossa a New York si diffondevano, i negozi di gelati (Frozen Yougurt shops, negozi di yogurt gelato, ndt) e di caffè – che erano rimasti sempre aperti – facevano improvvisi affari, visto che la gente cercava di tenere la mente occupata in attesa di tornare in ufficio. 



Mentre guardavo la folla ammassata in attesa della metro per il lento viaggio di ritorno delle 3 e 30, pensavo: perché vanno tutti a casa? I soli danni registrati riguardavano alcune scuole della Virginia settentrionale, tre volte della Cattedrale Nazionale e voci esagerate che dicevano che il Washington Monument fosse pericolante, anche se a occhio nudo sembrava del tutto a posto; fonti ufficiali hanno in seguito detto che c’era stato qualche danneggiamento sulla cima del monumento. Forse se ne andavano perché pensavano “meglio essere al sicuro che pentirsi dopo”. Ma perché non rimanere invece in ufficio a finire la giornata di lavoro e tornare alle normali attività? Come si è sentito dire da un uomo di affari per la strada, il terremoto ha coinciso con la situazione tremolante dell’economia americana. La corsa verso casa nasconde la domanda: “A chi ci possiamo rivolgere per avere sicurezza di fronte all’imprevisto?”. Nella terminologia delle assicurazioni, un terremoto viene messo nella categoria “volere di Dio”, ma questa coscienza non era così evidente nella paura vissuta in quei momenti, quando i negozi di gelati erano più frequentati delle chiese locali.



(Kristin Kennalley)

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