Il governo cinese sta pensando di cambiare il suo codice penale per tentare di rendere legali le tante scomparse dei dissidenti, come quella di Ai Wei Wei, prelevato dalle autorità e rilasciato infine lo scorso mese di giugno dopo tre mesi di detenzione. L’avvocato Gao Zhisheng, invece, è scomparso da oltre un anno, e ancora non si sa che fine abbia fatto. Gli emendamenti proposti alla legge che prevede l’istituto della cosiddetta residenza sorvegliata, permetterebbe alle autorità di trattenere in località scelte in precedenza per sei mesi le persone sospettate, senza doverlo per forza comunicare alla famiglia.
Da tutto il mondo si sono immediatamente alzate numerose polemiche, a partire dal ricercatore di “Human Rights Watch” Nicholas Bequelin, che avrebbe dichiarato alla France Presse che, se tradotti in legge, questi emendamenti  rappresenterebbero una espansione “preoccupante dei poteri della polizia e confermerebbero la crescita evidente del ruolo dell’apparato di sicurezza cinese”.
Joshua Rosenzweig, del gruppo di Hong Kong in difesa dei diritti umani Dui Hua, conferma che questa legge comporterebbe una “legittimazione delle sparizioni forzate a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno”. Infatti nei mesi scorsi decine di attivisti per i diritti umani hanno dovuto vedersela con le autorità cinesi, che ormai adottano sempre di più questo metodo di repressione.
IlSussidiario.net ha chiesto un commento a Enzo Cannizzaro, docente di diritto internazionale nella Università La Sapienza di Roma:  «Le informazioni sull’argomento sono ancora poche e anche la stampa straniera non ne parla molto, quindi occorre parecchia cautela nel trattare questo tipo di argomenti. Mi sembra comunque di capire che la Cina sia preoccupata del fatto che la privazione arbitraria della libertà dei dissidenti cinesi sia al centro del dibattito internazionale e dell’attenzione delle varie organizzazione internazionali, quindi cerca di correre ai ripari elaborando una procedura che stabilisca che le detenzioni arbitrarie non siano più illegali.
Si pone il problema di vedere se questa procedura soddisfa gli standard internazionali, ma la mia risposta è già senza dubbio negativa in quanto la detenzione arbitraria è caratterizzata non soltanto dall’assenza di una procedura giudiziaria, ma anche dalla presenza di una procedura che non rispetta gli stessi standard internazionali: non basta creare una legge che dia la possibilità alle autorità cinesi di rinchiudere i dissidenti per sei mesi, perché gli standard internazionali prevedono che ogni detenuto abbia il diritto di effettuare ricorso entro un tempo ragionevole, e sei mesi non mi sembrano proprio ragionevoli.
Se le cose stanno davvero così, questo è un tentativo per mascherare l’arbitrarietà della detenzione che non soddisfa assolutamente gli standard».



Chiediamo quindi al Prof. Cannizzaro in cosa consistano questi standard internazionali e quanto la Cina ne sia vincolata: «La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici di New York è stata firmata dalla Cina ma non ratificata dall’Assemblea Nazionale del Popolo, praticamente il nostro Parlamento; la Cina quindi non è vincolata da questo patto che è a tutt’oggi la Convenzione più completa in questa materia, e un’eventuale violazione quindi non comporterebbe nulla. Tuttavia la Cina è in qualche modo vincolata alla Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo, documento firmato nel 1948, che prevede il diritto alla libertà individuale. 
E dico vincolata perché, anche se la dichiarazione non è in realtà vincolante, vi sono molte tendenze a considerarla norma di diritto consuetudinario universale e di fatto è presa come modello anche dal gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie. Ricordiamo anche che questo gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie istituito dalle Nazioni Unite vede al primo posto la Cina come Stato che pratica questa forma di violazione dei diritti dell’uomo, e questo è significativo per capire quanto questo Paese faccia uso di questa pratica».

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