Al di là di ogni pur rilevante differenza, da un punto di vista socio-politico la Libia assomiglia molto alla Somalia: non esiste una vera società civile nemmeno allo stato embrionale, non c’è un vero ceto medio e l’appartenenza al proprio “clan”, al proprio gruppo parentale supera qualsiasi altra possibile lealtà politica. E per di più il Paese, nato come nostra colonia nel 1911-12, è stato… inventato da noi unendo insieme due terre, la Tripolitania e la Cirenaica, che sono estranee l’una all’altra essendo separate tra loro da una profonda frontiera storico-culturale che era già marcata ai tempo dell’Impero Romano quando segnava il confine tra l’Africa di lingua latina e quella di lingua greca, e da allora non si è mai attenuata.
Stando così le cose, nel caso della Libia e di Gheddafi a mio avviso sarebbe il caso di non dimenticarsi che cosa accadde in Somalia dopo l’uscita di scena di Siad Barre, alla cui caduta nel gennaio 1991 fece seguito una crisi degenerata fino all’anarchia che tuttora, a vent’anni dal suo inizio, resta drammaticamente aperta. Se questa fu la sorte della Somalia, dove non ci sono né gas né petrolio e che si trova nel Corno d’Africa, non si stenta ad immaginare che cosa potrebbe accadere in Libia dove ci sono enormi riserve di idrocarburi e che si affaccia sul Mediterraneo.
Tanto più nella condizione moderna, caratterizzata da una forte interdipendenza generale, la guerra non smette di confermarsi come uno strumento di soluzione delle controversie internazionali non solo inumano ma anche assolutamente inefficace. Nel caso particolare della Libia, uno dei nostri maggiori fornitori di idrocarburi, essa è anche per il nostro Paese uno strumento assolutamente sconsiderato.
Non ripeto qui ciò che ho cominciato a sostenere sin dall’inizio della crisi, e che i lettori de IlSussidiario.net possono andarsi a rivedere con un semplice “click”. Sottolineo piuttosto che la carta dell’uscita di scena concordata di Gheddafi, che il nostro governo avrebbe dovuto giocare subito, dovrebbe quantomeno venire giocata con forza adesso. Non solo il colonnello ha dimostrato, come era prevedibile, di non poter essere rovesciato in quattro e quattr’otto, ma ormai oggi anche chi non lo sapeva prima dovrebbe aver finalmente capito che cosa accadrebbe quando e se gli insorti riuscissero ad eliminarlo manu militari.
Pertanto, con la stessa determinazione con cui la Francia cominciò a bombardare la Libia senza nemmeno attendere la foglia di fico che la Nato stava approntando, a mio avviso il nostro governo dovrebbe ora prendere l’iniziativa di verificare attentamente se davvero, come ha fatto sapere, Gheddafi sia disposto a trattare, e muoversi di conseguenza; ovviamente lasciando cadere l’assurda pretesa che prima egli si arrenda brandita dagli insorti, ebbri di una vittoria che non c’è, e che nella misura in cui c’è non appartiene loro.
Sul tavolo dell’eventuale trattativa le poste in gioco hanno il vantaggio di essere abbastanza equilibrate: da una parte Gheddafi e i suoi sanno che il loro regime è finito, e che le condizioni del loro esodo dalla Libia non possono che venire negoziate con l’Occidente, dove il loro patrimonio è investito; dall’altra l’Occidente, e quel poco che c’è in Libia della “primavera araba”, dovrebbero sapere che la trasformazione della Libia in una nuova Somalia spazzerebbe via per decenni i già pochi e fragili germogli libici di tale primavera. Perciò un cambio della guardia a viva forza, quindi catastrofico, non è nell’interesse né degli uni né degli altri.
Si può sperare che il nostro governo sappia infine giocare le sue carte, che sono poi quelle di un Paese i cui legami con la Libia e con i libici sono stabili e profondi ai più diversi livelli, da quello economico a quello politico e militare? Di solito Berlusconi dà il meglio di sé in circostanze del genere, quando repentinamente diviene possibile rovesciare una situazione con qualche rapida mossa. Speriamo che lo faccia anche adesso, tanto più che l’inverno si avvicina; e con l’inverno il forte aumento del nostro fabbisogno di gas libico, e quindi una conseguente riduzione della nostra libertà di manovra.
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