E’ oramai evidente che quel 19 marzo qualcuno aveva fatto i conti senza l’oste. Seppure nessuna tra le forze alleate avesse mai apertamente detto che il conflitto in Libia sarebbe durato poco, non era neppure inizialmente trapelata l’impressione che sarebbe stata una guerra lunga e di sfinimento, soprattutto per i libici che continuano a combattere e a morire ogni giorno per pochi chilometri di deserto.
Oggi, dopo quasi cinque mesi di bombardamenti e di vera e propria guerriglia urbana che ha già causato un numero imprecisato di vittime tra i militari e i civili libici, nulla sembra cambiato e Muammar Gheddafi è ancora padrone della Tripolitania mentre i ribelli del Consiglio nazionale di transizione restano insediati in Cirenaica. Le sorti del Paese sembrano, dunque, ancora piuttosto incerte.
I motivi di questa empasse sono molti e non tutti riconducibili alla forse inaspettata resistenza del rais, ma anche ai crescenti problemi di “ordine interno” di coloro che dovrebbero combatterlo e questo è ancora più preoccupante perché, se nel primo caso il nemico contro cui combattere per ristabilire l’ordine nel Paese è chiaro e ben definito, nel secondo non lo è affatto e ciò lo rende molto più pericoloso.
Volendo iniziare dal primo problema, cioè la difficoltà di defenestrare definitivamente Gheddafi, non va dimenticato che il “vecchio” leader libico ha il sostegno di una parte della popolazione e un buon equipaggiamento militare e a noi occidentali fa ancora molta paura.
E’ difficile pensare che i politici nostrani, prima ancora dell’opinione pubblica, rimangano assolutamente impassibili davanti ai proclami antioccidentali e alle minacce di attacchi terroristici da parte leader libico. Lockerbie, dunque, non sembra oggi poi così lontana, prova ne sia che lo stesso Berlusconi negli ultimi giorni si è mostrato seriamente preoccupato delle minacce del rais che, seppure spesso considerate semplici deliri di onnipotenza, insinuano quantomeno un dubbio sulle intenzioni di Gheddafi e ciò potrebbe spingere le potenze occidentali, compresa quella Francia così ferventemente interventista, a fare almeno un passo indietro e ad aprire un margine di trattativa.
Ma forse a rendere ancora più incerta la situazione sono proprio quelle forze che, con il beneplacito dell’occidente e con il suo cospicuo sostegno economico, combattono contro il rais.
Se da un lato forse era ipotizzabile che Gheddafi non avrebbe mollato l’osso così facilmente, dall’altro non era stato previsto che i ribelli, nonostante i loro buoni armamenti di marca occidentale e nonostante i cospicui finanziamenti provenienti dagli “amici alleati”, riuscissero a divenire i principali nemici di se stessi a causa delle loro divisioni interne, della mancanza di una chiara guida comune e di una linea di azione coerente. Un esempio per tutti, il generale Abdel Fattah Younes, ex ministro di Gheddafi che ha guidato la campagna militare dei ribelli contro il regime, è stato ucciso, a meno che non vi siano smentite ancora dell’ultimo minuto, da un gruppo di ribelli libici. Sicuramente la figura di Younis lascia quantomeno perplessi, tant’è che doveva essere prelevato, proprio dai ribelli che lo hanno ucciso, per un interrogatorio finalizzato chiarire la sua posizione su illazioni che lo volevano ancora vicino alle autorità di Tripoli e che fosse quindi sospettato di spionaggio e di alto tradimento.
In ogni caso, una tale azione lascia aperto il dubbio che il modus agendi stabilito dai vertici del Governo provvisorio (sostenuto anche dalle potenze alleate) e quello del loro “braccio armato” non sempre sia lo stesso. Questa discrasia non è di poco conto se si pensa che per ora il Governo transitorio si regge essenzialmente su una struttura poco organizzata istituzionalmente e dunque senza garanzie “legali” ma piuttosto sull’accordo tra i leader e i ribelli stessi, figure spesso ambigue e di diversa provenienza e estrazione. In più i rivoltosi sono divisi e frazionati e con un ogni probabilità la tribù di Younes ora chiederà giustizia agitando lo spettro di possibili e sanguinose vendette interne. Tutto ciò indebolirebbe ancora di più i ribelli che, al momento, sono il solo esercito di cui la Nato dispone sul campo. Ma davanti a un nemico che continua a dimostrarsi forte e temibile, non solo per i libici, ma anche per l’Occidente, un esercito diviso, poco strutturato e incapace di coordinarsi con i propri vertici è il peggiore dei mali.