Primavera araba, autunno turco. Il viaggio del primo ministro Recep Tayyip Erdogan in Egitto, Tunisia e Libia è servito a rivendicare per la Turchia un ruolo di leadership nella fase più delicata del processo di trasformazione in atto in Medio oriente: quella ulteriore e indispensabile della rifondazione istituzionale e del rilancio economico. Una leadership consacrata dalla notevole popolarità e dall’intraprendenza politica del premier, resa quasi automatica dall’assenza di rivali regionali; una leadership legittimata dagli apprezzamenti diffusi per un “modello turco” elettoralmente vincente, perché il Partito della giustizia e dello sviluppo guidato da Erdogan, l’Akp, ha vinto tre elezioni di fila con aumenti costanti nei consensi, fino a sfiorare il 50 percento il 12 giugno 2011.



I capisaldi di questo modello sono la creazione di un sistema politico – che verrà presto formalizzato in una nuova costituzione – pienamente democratico, laico ma non ostile alle manifestazioni di fede degli individui; alti tassi di crescita (+8,8% nel secondo trimestre del 2011) con conti pubblici in ordine, diminuzione della disoccupazione e capacità di penetrazione sui mercati esteri (anche con progetti infrastrutturali e prodotti ad alto valore aggiunto) – anche se destano preoccupazione lo squilibrio strutturale della bilancia dei pagamenti, il deprezzamento della lira turca facilitato dalla politica dei bassi tassi d’interesse praticata dalla Banca centrale, una recrudescenza inflazionistica negli ultimi mesi; una politica estera fondata sulla cooperazione e l’integrazione, che ha come priorità l’ingresso a pieno titolo nell’Unione europea (dopo le elezioni di giugno, è stato finalmente creato un ministero per gli affari europei). Ankara ha istituito anche formule di cooperazione politica ed economica con tutti i vicini, dai Balcani all’Africa settentrionale, nonostante siano sempre più tesi – almeno in questa fase – i rapporti con l’Armenia, con la Repubblica di Cipro e soprattutto con Israele.



Un modello proposto come “fonte d’ispirazione”, da adattare liberamente a diversi contesti socio-politici. Gli esiti attesi dal governo turco – lo ha confidato direttamente su twitter il consigliere del premier Ibrahim Kalin durante la tappa libica – sono epocali: “un nuovo mondo arabo, un nuovo Medio oriente è destinato a emergere. Sarà basato sulla giustizia e la libertà, e questo sarà un bene per il mondo”.

Da questo punto di vista il viaggio di Erdoğan non deve essere visto come un “tour dell’odio”, con lo scopo precipuo di isolare Israele diventato nemico e spauracchio: anche se il nuovo Medio oriente potrà nascere – nella visione turca – solo da una soluzione equa della questione palestinese, fondata sul diritto e non più sulla prepotenza. Il premier di Ankara, lungi dall’imboccare scorciatoie retoricamente virulente, ha infatti impostato il suo appello a sostegno della Palestina che vuole farsi Stato – indirizzato ai ministri degli esteri della Lega araba riuniti al Cairo, e applauditissimo – in termini propositivi: unità e cooperazione arabo-turca, la bandiera della Palestina come “simbolo di pace e di giustizia”; mentre Israele è stata invitata ad agire “con ragionevolezza, con responsabilità, con rispetto per i diritti umani” e ad accettare le condizioni della Turchia per la normalizzazione dei rapporti bilaterali (scuse e risarcimenti per l’eccidio della Mavi Marmara, fine del blocco di Gaza): altrimenti rischia un perenne isolamento, perché le posizioni del suo attuale governo – secondo Erdoğan – sono incompatibili col Medio oriente che si è ribellato ai dittatori.



In Egitto, è stato firmato un protocollo che istituisce l’Alto consiglio di cooperazione strategica tra i due paesi, per dare continuità e solidità alla neonata partnership; sono stati firmati accordi tra i governi in materia culturale ed economica, tra cui spicca quello per le esplorazioni petrolifere congiunte nel Mediterraneo orientale; sono stati firmati numerosi contratti dagli imprenditori (di ogni settore, anche di grandi imprese) al seguito. L’obiettivo dichiarato: sfruttare l’accordo di libero scambio già esistente per moltiplicare le transazioni in volume e in valore, per incentivare gli investimenti turchi.

Al Cairo Erdoğan ha invitato a più riprese tutti i paesi mediorientali – soprattutto in un discorso all’Opera, poi nel corso di un’intervista televisiva – ad adottare modelli costituzionali secolari, inclusivi, laici ma non laicisti: attraverso i quali assicurare diritti e libertà fondamentali anche alle minoranze etniche e religiose. C’è stata qualche polemica con la vecchia guardia dei Fratelli musulmani, molti osservatori occidentali sono rimasti spiazzati. In effetti, il progetto politico dell’Akp è stato fino a oggi spiegato in modo approssimativo dal sistema mediatico internazionale e anche italiano, lo stesso Erdoğan è stato presentato anche alla vigilia delle ultime elezioni come leader islamista e/o autocratico: ma nonostante la cattiva stampa, i giudizi dei governi italiani degli ultimi quindici anni – ulivisti o berlusconiani – e di molti altri paesi europei – eccezion fatta per la Francia, la Germania e l’Austria – sono stati tradizionalmente positivi e fattivamente incoraggianti per la Turchia in Europa.

Anche la notizia rimbalzata domenica sui maggiori siti informativi italiani – e cioè la presunta minaccia, lanciata dal vice-premier Beşir Atalay, di rompere le relazioni con l’Unione europea se nel secondo semestre del 2012 la Repubblica di Cipro avrà la presidenza di turno dell’Unione europea – è imprecisa e fuorviante: come già spiegato ufficialmente a luglio, non avendo rapporti diplomatici diretti con la Repubblica di Cipro la Turchia si limiterà a congelare per sei mesi i contatti con la presidenza, proseguendo senza problemi i negoziati di adesione con la Commissione di Bruxelles.

Il viaggio africano del premier Erdogan è proseguito in Tunisia e in Libia: con un giorno di ritardo, per evitare un’antipatica sovrapposizione, a Tripoli e Bengasi, con l’affrettata passerella di Sarkozy e Cameron che hanno dato l’impressione di volergli “rubare la scena”. Il programma è stato pressoché identico: incontro coi vertici istituzionali e con tutte le forze politiche, bagni di folla, ricchi contratti, sostegno alla Palestina, avvertimenti a Israele, denuncia ormai definitiva della repressione siriana, difesa del modello costituzionale laico ma non laicista. Le “prove” di leadership attendono ora nuovi sviluppi.