A Betlemme il checkpoint è chiuso da qualche settimana. Il punto di accesso più vicino a Gerusalemme è stato sbarrato per 23 giorni in misura preventiva. E da qualche tempo i confini della Cisgiordania sono presidiati dalle truppe israeliane. Anche dove prima non si facevano vedere. Il governo ha intensificato le misure di sicurezza: code più lunghe ai checkpoint e controlli più severi in vista del 23 settembre, quando Abu Mazen chiederà ufficialmente all’ONU di riconoscere lo stato palestinese. E i territori occupati vivono a modo loro una vicenda che trova molto spazio sui giornali locali e tanta indifferenza tra la gente.



“I palestinesi vogliono la pace, non solo uno stato”. Chi mi rivolge queste parole, scorgendo la mia perplessità di fronte al muro sbarrato,  è Jhony, un arabo palestinese di 25 anni. Lui è uno di quelli che non guarderà la televisione in attesa del verdetto finale. “Se avere uno stato significa chiudere le frontiere, è meglio lasciar perdere”, mi dice. In fin dei conti, lui fa parte di quegli arabi – e ce ne sono tanti – che hanno il permesso di lavorare a Gerusalemme. Ogni mattina si alza alle 4 per attraversare il muro e timbrare il cartellino dall’altra parte. Non è certo la canonica vita del pendolare, ma almeno significa portare qualche soldo a casa e vivere dignitosamente anche in un luogo dove la miseria è la costante compagna della vita.



“Israele ha già condannato la scelta di Abu Mazen – continua Jhony – e non c’è modo di tornare indietro”. Gli interessi politici sono altissimi, e quando alle dispute idelogiche si mescolano anche gli aspetti economici, tutte le conseguenze sociali sulla popolazione passano in secondo piano. E rimane vero che quando i ricchi si fanno la guerra, ad andarci di mezzo sono sempre i poveri. Su questo Jhony è certo: “Di noi non si prende cura nessuno”. La faccia del mio amico palestinese diventa triste mentre varchiamo l’altra barriera, a nord di Betlemme, che rimane aperta per i lavoratori. “Nessuno pensa che se ci sarà uno stato io probabilmente non avrò più di che vivere”. O forse, peggio ancora.



“Uno stato palestinese ora significa la distruzione di tutti gli insediamenti, ma è impensabile che questo avvenga in poco tempo”. Mi fa capire che presto ci potrebbero essere altri scontri, anche tra i civili. E facilmente significherebbe una complicazione delle trattative a un livello più alto, con conseguenze ancora peggiori. In tutto questo, di una via d’uscita a questo conflitto interminabile per adesso non se ne parla neanche. E Jhony mentre va a casa mi dice: “Mio nonno non voleva morire prima di aver visto la pace, ma non ci è riuscito. Lo stesso desiderio era nel cuore di mio padre, e lo è anche nel mio, ma mi rendo conto che sto sperando contro ogni speranza. E comincio a essere stufo”.