Il sommovimento in atto nel Nordafrica e nel Vicino Oriente a seguito dell’ormai visibile ridursi della presenza americana nel Mediterraneo ha bruciato un’altra tappa nei giorni scorsi quando all’Assemblea generale dell’Onu il premier dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha chiesto ufficialmente che la Palestina venga accolta come Stato nell’organizzazione; e più tardi il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preso la parola per contestare le ragioni addotte a sostegno di tale richiesta. Quale che sarà l’esito della vicenda già il solo fatto che l’Autorità palestinese abbia preso questa iniziativa è un rilevante fatto nuovo, che in precedenza sarebbe stato inimmaginabile.
È peraltro una mossa in cui c’è qualcosa di tipicamente arabo: la mossa con la quale in una trattativa che si è bloccata metti sul tappeto una proposta che sai già essere inaccettabile dalla controparte, ma che ti serve per rimescolare le carte e riaprire il negoziato. In questo senso è interessante la replica a sua volta “araba” del premier israeliano che in sostanza da un lato ha contestato la proposta, ma dall’altro ha invitato i palestinesi a tornare appunto al tavolo dei negoziati. Se in tempi brevi il negoziato riprendesse l’Onu avrebbe buoni motivi per tenere in sospeso la richiesta palestinese in attesa del loro esito. Se così fosse, esso avrebbe luogo in certo senso sotto l’égida di fatto, anche se non di diritto, delle Nazioni Unite, il che potrebbe accontentare i palestinesi senza essere cosa insopportabile per gli israeliani.
Se in tale quadro finalmente le due parti cominciassero a parlarsi in via diretta senza patroni e senza intermediari forse sarebbe loro più facile arrivare a qualche risultato. Dopo vent’anni di trattative ogni aspetto della questione è stato approfondito fino alla nausea: non c’è più nulla da chiarire, c’è solo da decidere come accordarsi. Ovviamente non è cosa facile, ma se la volontà di accordarsi c’è, all’accordo si può giungere in poco tempo. Mentre alla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti diedero immediatamente il cambio alla Gran Bretagna e alla Francia, questa volta alle spalle del “grande fratello” americano che comincia ad andarsene non se ne delinea alcun altro minimamente credibile. Stando così le cose il tempo sempre meno gioca a favore di Israele, che avrebbe tutto l’interesse a trattare in fretta da una posizione relativamente di forza prima di esser costretto a farlo in una posizione relativamente debole.
In quanto agli Usa e all’Europa meno si coinvolgono meglio è. Più di tante interferenze nello sviluppo delle trattative, che i vent’anni trascorsi invano dagli accordi di Oslo hanno dimostrato non servire a nulla, sarebbe molto più efficace la presentazione di un credibile piano di investimenti a fine di sviluppo coordinato di tutta l’area compresa tra la valle del Giordano e la riva del Mediterraneo, il cui avvio fosse subordinato alla soluzione effettiva e stabile della crisi israelo-palestinese. Se infatti da un lato il tempo non gioca a favore di Israele sul piano politico, dall’altro non gioca sul piano economico a favore dell’Autorità palestinese e del suo territorio, che non può più sperare di vivere sine die soltanto di aiuti internazionali.
D’altro canto per l’Europa l’ingresso del Levante nella cerchia delle economie di nuova industrializzazione, di cui una pace feconda tra Israele e Palestina sarebbe il motore indispensabile, è una grossa via d’uscita a portata di mano dal presente ristagno economico. Se ben giocate, tutte queste carte potrebbero farci uscire tutti quanti da un vicolo cieco cui altrimenti sarà molto difficile sottrarsi.
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