Dopo aver cercato in tutti i modi (e invano) di evitare che Mahmud Abbas, leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), arrivasse venerdì scorso a depositare all’ONU la richiesta unilaterale di riconoscimento di uno stato di Palestina, le intense consultazioni che il Quartetto (Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia) ha portato avanti prioritariamente all’apertura dell’esame da parte del Consiglio di Sicurezza, hanno prodotto una proposta assai poco originale se si guarda alla storia della questione israelo-palestinese: l’invito che viene rivolto a alle due parti è quello di “riaprire i negoziati per arrivare ad un accordo di pace entro il 2012”. In mancanza di alternative l’obiettivo – o forse il male minore – cui i grandi della Terra mirano è forse la benedizione di questo momento come l’ennesima e improduttiva puntata del processo diplomatico più stagnante sul piano internazionale, sebbene quanto mai foriero di instabilità sul piano regionale. Nessuno – certo – si aspettava alcun significativo sbilanciamento diplomatico, ma questa overdose di cautela si rivela ironicamente (o inevitabilmente) cieca di fronte alla mossa strategica di Mahmud Abbas.



Nel presentare la richiesta di riconoscimento della Palestina come stato non membro dell’Onu, il leader dell’Anp ha infatti introdotto un importante elemento di novità rispetto al passato: lo spostamento dell’asse del negoziato dalla dimensione bilaterale arabo-israeliana alla dimensione multilaterale internazionale. Con questa traslazione, Mahmud Abbas ha volutamente rotto gli schemi dell’impostazione storica dei negoziati, finora incapaci di produrre risultati concretamente in grado di alterare lo status quo.



Chiamando, inoltre, per la prima volta tutti i membri della comunità internazionale a smarcarsi dalle posizioni di ambiguità e ad esprimere formalmente il proprio supporto nei confronti dei palestinesi o degli israeliani, Abbas mira a rafforzare la sua posizione sui tavoli negoziali. Per essere approvata la richiesta deve ricevere almeno 9 voti favorevoli (su 15) e nessuno dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dovrebbe utilizzare il veto. La cronaca di un fallimento annunciato è stata narrata quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente dichiarato che opporranno il veto, ma è chiaro che se si dovesse superare lo scoglio dei 9 voti il tradizionale supporto dell’America e di quella parte della vecchia Europa nei confronti di Israele si ritroverà a far la parte del re nudo. A quel punto rilanciare i negoziati bilaterali, come auspica il Quartetto, sarà possibile a patto che l’impostazione degli stessi non venga vigorosamente rivista. Mahmud Abbas ha infatti già dichiarato che si siederà ai tavoli negoziali solo se Tel Aviv congelerà la costruzione dei nuovi insediamenti – 1600 alloggi nel rione di Ramat Shlomo a Gerusalemme est – cui la Knesset ha dato il via libera solo poco più di un mese fa.



Tutti gli attori, inoltre, sanno bene che le istanze su cui ci si dovrà obbligatoriamente confrontare sono, ancora una volta, le stesse: il rientro nei confini del 1967, lo statuto di Gerusalemme e il ritorno dei rifugiati.

Per ironia della sorte, l’iter del Consiglio di Sicurezza si apre sotto la presidenza di turno del Libano, uno Stato per cui proprio il ritorno dei rifugiati rappresenta una questione vitale: nel piccolo paese dei Cedri vivono, infatti, 400.000 palestinesi, che su una popolazione di 4 milioni di persone rappresentano il 10% del tessuto demografico, alterando drammaticamente un già fragile e frammentato equilibrio sociale.

Di fronte ai punti in questione Israele, per ora, sembra persistere su posizioni rigide e inamovibili, giocandosi una partita che non è destinata né vuole deviare da un processo ciclico, da almeno vent’anni sempre uguale a se stesso: quello di un confronto asimmetrico basato sulla schiacciante supremazia militare dello stato ebraico e sulla sua special relationship con l’America.

Ed è proprio qui che risiede la cecità israeliana e, per conseguenza, quella statunitense. Ad essere drammaticamente trascurata è, infatti un’altra novità, ancora più strutturale e profonda, entro cui si inscrive la richiesta unilaterale di riconoscimento della Palestina: il mutamento del quadro politico della regione prodotto dalle rivoluzioni arabe del 2011, all’interno del quale gli Stati Uniti stanno perdendo a vista d’occhio la loro egemonia.

Fin dalla fine della Guerra del Kippur del 1973, infatti, la frammentazione dell’ordine regionale – sancito dalla pace separata con Israele di Egitto (1979) e Giordania (1994), dalla rivalità inter-araba della guerra del Golfo del 1990-91 e dal progressivo allineamento degli stati arabi sulla volontà statunitense in cambio di supporto economico e securitario – ha di fatto garantito negli ultimi 40 anni la quiescenza delle armi e della diplomazia pan-araba a fronte di qualsiasi iniziativa israeliana. L’assenza di risposte da parte dei paesi arabi nella Seconda Intifada palestinese del 2000, nell’invasione israeliana del Libano del 2006, nei bombardamenti su Gaza nel 2009 hanno, in altri termini, sancito la cristallizzazione di un assetto territoriale, seppur formalmente privo di legittimità, sostanzialmente incontestato. Persino un regime socialista e nazionalista come quello degli Assad in Siria, che ha storicamente fatto della resistenza a Israele una delle principali risorse di consenso politico interno, dal 1973 al 2011 ha reso le alture del Golan (al confine con lo Stato ebraico) uno dei lembi di terra più pacifici di tutto il mondo arabo. Fino alla vigilia delle rivoluzioni, dunque, sul piano dei rapporti tra le élites politiche, la normalizzazione arabo-israeliana era ormai qualcosa di assodato.

Mentre i fattori di novità che le transizioni in corso saranno in grado di iniettare nei sistemi politici arabi appaiono quanto mai indefiniti, tuttavia, uno dei pochi prodotti già tangibili delle rivoluzioni del 2011 è la rinnovata potenzialità che gli attori regionali – vecchi e nuovi – trovano nella strumentalizzazione della questione arabo-israeliana al fine di costruire, rinnovare (o salvare disperatamente) la base di legittimità del potere politico. Lo si è visto in Egitto, dove il nuovo governo provvisorio ha puntato prioritariamente sulla revisione delle istanze nella relazione con Israele che avevano caratterizzato l’era Mubarak: lo sblocco del confine tra Gaza e l’Egitto (imposto su richiesta di Netanyahu dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2007), l’ospitalità data il 5 maggio 2011 alle delegazioni di Hamas e al-Fatah in occasione dell’accordo di riconciliazione tra le due fazioni palestinesi, il mancato controllo delle tensioni sul Sinai che sta mettendo profondamente in crisi la tenuta dell’accordo di pace per finire con l’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo all’inizio di questo mese. 

Sul fronte siriano, istigando l’innalzamento delle tensioni sul Golan nel giorno della Nakba e della Naksa (in cui alcuni palestinesi hanno forzato la frontiera con lo stato ebraico, richiamando una risposta militare da parte israeliana), Bashar al Assad si è fatto scudo contro le pressioni americane ed europee oltre a quelle dei vicini arabi e mediorientali: l’obiettivo di Damasco era, in altri termini, avvertire la comunità internazionale che il crollo del regime potrebbe avere come conseguenza immediata il surriscaldamento del confine siriano-israeliano.

Che si tratti di pericoloso populismo, come molti hanno evidenziato, poco importa, in realtà, quando la riviviscenza della resistenza antisionista araba ha già determinato una profonda crisi delle relazioni tra Turchia e Israele, tramite cui Ankara mira a depurarsi degli ultimi connotati poco compatibili con la sua aspirazione egemonica sul mondo arabo. E non solo. L’Iran di Ahmadinejad che ha cavalcato in via prioritaria la lotta contro Israele per acquisire influenza sui paesi arabi, vede l’innalzamento delle tensioni arabo-israeliane come un’opportunità preziosa per inserirsi nel solco di un equilibrio regionale che si sta ridefinendo.

In questo contesto che valore avrà il veto degli Stati Uniti? Da una parte i regimi autoritari, clienti o in qualche modo vincolati all’America e perciò garanzia per Washington del contenimento di politiche antisioniste, non ci sono più o, crollando, potrebbero rigirare a loro vantaggio la carta “Israele”.  Dall’altra, l’antiamericanismo diffuso nella regione troverebbe facilmente nuovo vigore nel constatare che il presidente che nel 2008 aveva tenuto all’Università del Cairo un discorso basato sul dialogo alla pari tra le civiltà, compiendo un’audace sortita dai ranghi della tradizione della politica estera americana in Medio oriente, adesso in quei ranghi ci rientra mestamente. E lo fa per far tornare i conti elettorali che gli consentiranno – forse – di ripresentarsi alle prossime elezioni presidenziali. E dopo aver, inoltre, dichiarato nel giugno 2011 che “uno stato palestinese è nell’interesse degli Stati Uniti ma anche nell’interesse di Israele, che trarrebbe solo vantaggio dalla normalizzazione dell’assetto territoriale”.

Nel perseguire una politica conservatrice, quello che in realtà sembra sfuggire al governo di Netanyahu è che l’attuale mondo arabo è molto differente da quello che Israele ha conosciuto sinora. Un mondo arabo in cui i vicini attori mediorientali (Turchia e Iran) stanno occupando il vuoto di potere che Washington riesce sempre meno a recuperare, e la cui base di legittimità si basa proprio sulla lotta contro l’irredentismo sionista. Senza considerare che in termini di vantaggi relativi, per la Turchia perdere un alleato come Israele in questo momento potrebbe essere un’opportunità mentre per Israele lasciar crollare l’appoggio di Ankara vorrebbe dire chiudere anche quell’unica breccia nelle lunghe mura del suo isolamento regionale.

Nel nuovo contesto mediorientale, dunque, la sicurezza di Israele è sempre più precaria, mentre le prospettive di un nuovo conflitto arabo-israeliano sempre più concrete; un contesto dove, inoltre, la garanzia della vittoria in virtù della superiorità militare appare anche sempre meno scontata, se si pensa alle lunghe e poco risolutive guerre che proprio l’America, il principale alleato di Israele, ha condotto negli ultimi 10 anni in Medio oriente (Afghanistan e Iraq). E in virtù delle quali, oltretutto, il supporto militare degli Usa, fagocitati dal loro debito pubblico e sempre meno disposti e sperperare risorse all’estero, sarebbe – adesso più che mai – difficile e costoso.