Mentre a Parigi gli amici della “Nuova Libia” disegnano il futuro del paese, si aprono una serie di incognite sui possibili scenari, offuscate, fino ad oggi, dal raggiungimento dell’obiettivo comune dell’abbattimento del raìs che in qualche modo aveva messo tutti d’accordo: europei, americani, capi tribù, vertici del Consiglio Nazionale di Transizione, fino ai gruppi armati di varia estrazione che combattevano nelle diverse zone del paese.



Dopo i primi momenti di esaltazione, seguiti alla conquista della capitale da parte dei ribelli, il ritorno alla realtà è stato, però, tanto repentino quanto doloroso. Qual è la Libia che Gheddafi ci lascia “in eredità”? E quale sarà il suo futuro? Senza voler peccare di eccessivo pessimismo è quantomeno evidente che le incognite sono molte e dipendono da numerose e complesse variabili di cui è indispensabile tenere conto per cercare almeno di ipotizzare il futuro del paese.



In questi mesi di guerra si è parlato spesso del Consiglio Nazionale di Transizione come del principale interlocutore della “Libia che verrà”. A sancire questo importante ruolo è stato, nei giorni scorsi, il vertice di Parigi in cui il Cnt è stato riconosciuto come unica e legittima autorità nel paese da circa 50 stati, Russia e Algeria compresi. A ciò si aggiunga che al Consiglio verrà destinata una cospicua porzione dei beni libici bloccati all’estero e ora scongelati. Mai come ora, dunque, appare necessario capire se le speranze degli “amici della Libia” siano o state o meno ben riposte. Di che istituzione stiamo realmente parlando? E qual è la sua reale capacità rappresentativa?



In realtà, al di là delle dichiarazioni rese da Mahmud Jibril, attualmente a capo del Governo provvisorio, che durante le su numerose visite nelle capitali occidentali si è più volte vantato di  “guidare una rivoluzione che sarà in grado di assumere la guida del Paese”, sappiamo decisamente poco di questo organo e dei suoi membri, fatta eccezione per pochi volti noti e non sempre trasparenti. Eppure il Consiglio sembra aver ben chiaro il futuro del paese: una grande Libia repubblicana con un nuovo governo nazionale, una costituente, una legge elettorale ed elezioni legislative nel giro di 20 mesi. Insomma, il migliore dei mondi possibili, che però pecca forse di eccessivo ottimismo, soprattutto alla luce del fatto che questo organo, con un assetto interno incerto e traballante, in cui si susseguono rimpasti e difficili compromessi tra i vari esponenti e le varie correnti interne, non sembra poter garantire la rappresentatività delle molte anime della rivolta che, dopo aver combattuto per la liberazione del paese, presenteranno il conto chiedendo la propria “porzione” di potere.

Ora, le fratture tra le diverse componenti  del fronte anti Gheddafi costituiscono un problema molto serio. Già durante i primi mesi di combattimento era chiaramente emerso come coloro che per praticità venivano chiamati “ribelli” fossero in realtà la risultante dei diversi gruppi tribali che per anni hanno convissuto in Libia e che, fin’ora, in questa guerra, hanno lottato fianco a fianco, uniti dal minimo comun denominatore dell’abbattimento di Gheddafi. Ma ora la fine del raìs potrebbe segnare l’inizio della vera lotta per il potere in Libia proprio all’interno della coalizione anti-gheddafiana: laici ed islamici, progressisti e conservatori, esponenti di gruppi etnici e tribali, e tra questi soprattutto quei berberi che hanno contribuito all’assalto finale a Tripoli. Da non dimenticare, poi, lo spettro dei radicali islamisti, ritenuti da alcuni i più preparati ed organizzati nelle diverse fasi dei combattimenti. Se davvero si vorrà dare vita a una nuova Libia sarà, dunque, necessario, in primo luogo, creare una difficile unità tra i diversi interessi, operazione affatto semplice ma assolutamente necessaria per un concreto e decisivo processo di nation building.

Sulle strade di Tripoli che festeggia “la liberazione” il potere della resistenza lealista sembra oramai esaurito e con ogni probabilità nelle ultime roccaforti rimaste ai fedeli del raìs, prima tra tutte la città di Sirte, i ribelli, ancora sostenuti dalle forze Nato (così è stato stabilito nel vertice di Parigi), non dovrebbero trovare grosse “difficoltà all’ingresso”, sempre che non siano gli stessi lealisti ad accettare l’ultimatum degli insorti. Inutile, però, farsi illusioni e credere che i fedeli al raìs abbiano abbandonato per sempre le proprie velleità. Con ogni probabilità si tratta di un temporaneo allentamento della morsa, in previsione di un ritorno al momento giusto; quando, cioè, ci sarà da spartirsi il potere, con una possibile conseguente lotta fratricida tra vincitori e vinti.

Le incognite del dopo Gheddafi appaiono molte e di non facile soluzione ed è probabile che  in Libia la guerra non finirà con la fine del leader che per più di un quarantennio ne ha retto le sorti. Nonostante tutto, però, resiste la speranza che la fine della dittatura segni anche l’inizio della pacificazione tra le genti libiche e magari di uno stato unitario che non sia retto da una “egocentrica” Jamahiriya ma da un concreto apparato istituzionale. Ma la Libia non si stabilizzerà in tempi rapidi né con facilità, e per questo è necessario un grande sforzo non solo da parte dei libici, ma anche da parte di coloro che fin qui li hanno aiutati, nella consapevolezza che per aiutare concretamente il paese è necessario sostenere un processo di riforme politiche, sociali, economiche e istituzionali che “nasce da zero” e non limitarsi soltanto ad accordi economici utili per avere un “posto a tavola” nella partita della ricostruzione e nello sfruttamento delle risorse energetiche.

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