Ieri abbiamo partecipato alla cerimonia di commemorazione dei due anni del terremoto, organizzata da una Agenzia internazionale molto attiva in Haiti. Una cerimonia incentrata sulla ricostruzione e sul sostegno dato alla comunità locale, sui veri attori della ricostruzione e sui risultati raggiunti. All’uscita riflettevo sullo strano sentimento di freddezza che questa cerimonia mi aveva lasciato addosso. Se avessi dovuto dargli un nome, avrei detto che era la cerimonia dei risultati della ricostruzione, non la commemorazione del terremoto.
Quasi arrivata al parcheggio ho incontrato una collega haitiana, che lavora proprio per questa Agenzia, e che anziché essere in sala aveva stranamente preferito restare fuori. Ho fatto i consueti auguri di Buon nuovo anno 2012, ma ho subito visto la tristezza velarle lo sguardo. Mi ha detto: “Sa, per me un eventuale nuovo anno non può cominciare che dopo il 12 gennaio. Prima c’e’ solo il ricordo, il dolore del ricordo. Della mia bambina morta sotto le macerie, della tomba che non ho potuto darle, lo strazio di non avere nemmeno un posto dove andare a piangere”.
E così improvvisamente ho capito che cosa c’era di freddo nella cerimonia. Non era la “nostra” commemorazione. Noi che ad Haiti c’eravamo, noi che il cuore lo abbiamo in questo Paese, il 12 gennaio non pensiamo principalmente alla ricostruzione fatta o non fatta o parzialmente fatta. Pensiamo ai nostri morti. Agli amici (tanti, quanti!) che non ci sono più, alla sofferenza che abbiamo affrontato e che in qualche modo non ha mai smesso di accompagnarci. Sono passati due anni. 24 mesi. Pochi sono stati i giorni in cui siamo riusciti a non pensarci, a non pensare a quel momento in cui la terra ha tremato e in una manciata di secondi si è portata via la vita, le persone che amavamo, il mondo che conoscevamo. Niente è mai stato più come prima. Abbiamo imparato a convivere con la sofferenza, abbiamo imparato a guardare in faccia al dolore, abbiamo dovuto accettare che la miseria della vita da terremotati inghiottisse la nostra gente. Ma non abbiamo potuto dimenticare, non lo potremo mai.
Domenica sono stata al cimitero, a pregare sulla tomba della famiglia di mio marito. Nello stesso caveau sono sepolte le due figlie di un amico, le due bimbe morte abbracciate sotto il tavolo della cucina mentre la mamma le guardava impotente dal giardino, senza poterle salvare. Il papà si era presentato a casa nostra con i piccoli corpi nel cassone del pick up, avvolti in un lenzuolo. “Non ho un posto dove seppellirle, non c’e’ più posto in nessun cimitero. Non voglio portarle alla fossa comune, sono le mie bambine. Aiutatemi vi prego”. Il viaggio in pick up con quel carico leggero, me lo ricordo ancora. Come ricordo gli occhi del papà.
“Aiutatemi, vi prego”. Quante volte abbiamo sentito queste parole in questi 24 mesi? Tante, troppe. Qualcuno degli amici, i più anziani, ci chiede come i nostri ragazzi riescono a essere ancora in piedi, dopo tutto questo. Come è stato possibile continuare. Noi non lo sappiamo con certezza, come è successo. Ma c’era quella domanda: “Aiutateci”. Quella domanda a cui non si può non rispondere. Umanamente, non si può ignorarla.
Abbiamo risposto come potevamo, come sapevamo, con le risorse che erano giorno per giorno disponibili, risorse emotive, professionali, materiali. Non le nostre risorse, ma le risorse che la grande solidarietà di tante persone ha reso disponibili. La solidarietà si è trasformata in tende, in scuole, in centri educativi; si è trasformata nei primi sorrisi, nella speranza. Per 24 mesi la solidarietà è stata per questa gente un segno tangibile della vicinanza e dell’accompagnamento della Comunità internazionale. Dal dolore e dallo strazio sono nate prima la solidarietà e poi la fratellanza. Quando i tuoi morti riposano con quelli del tuo vicino, ti senti necessariamente più fratello.
Questa umanità ritrovata e ricostruita, seppur ancora fragile e ferita, questa è la vera ricostruzione di Haiti oggi. E di questa siamo orgogliosi di aver fatto parte, nel nostro piccolo.