Dal marzo scorso, ovvero da quasi un anno, la Siria – un Paese a poche ore di volo da noi e col quale abbiamo relazioni economiche non trascurabili – è travagliato dalla crisi del regime di Bashar al-Assad. Nelle città più ostili a tale regime, tra cui in particolare Hama, roccaforte dei Fratelli Musulmani, si susseguono manifestazioni poi represse con spargimento di sangue dall’esercito. Già colpita dal contraccolpo della crisi internazionale in atto, tanto più l’economia siriana sta ovviamente risentendo di questa drammatica e prolungata instabilità. Ciò ha particolari riflessi anche sul suo non trascurabile settore manifatturiero, che è un cliente di un certo peso dell’industria delle macchine utensili italiana e specialmente lombarda. E anche al di là di questo, che comunque non è cosa di poco conto, giova ricordare che, insieme a Sudest europeo, il Vicino Oriente è la più rilevante area di potenziale crescita del nostro interscambio con l’estero, e quindi una “frontiera” molto importante, tanto più in un momento come quello che stiamo attraversando.
Non possiamo perciò permetterci di lasciare che sugli sviluppi della crisi siriana influiscano soltanto delle potenze che – diversamente dall’Italia, e dall’Europa mediterranea in genere – preferiscono che il Levante resti in tensione e non vada mai oltre la tregua, senza mai giungere alla pace e quindi allo sviluppo. E che quindi, come già avvenne nel caso della Libia, soffiano sul fuoco della crisi siriana puntando a esasperarla e non a propiziarne una soluzione non catastrofica. Per motivi storici, sui quali non abbiamo spazio per soffermarci qui, il regime di cui oggi è a capo Bashir al-Assad, fondato oltre quarant’anni fa da suo padre Hafiz al-Assad, s’identifica in larga misura con gli alawiti, una confessione religiosa nata dall’Islam ma ritenuta eretica dalla maggior parte dei musulmani, i cui seguaci sono in Siria circa il 15% della popolazione.
Nel Paese si contano poi altre minoranze socialmente rilevanti tra cui innanzitutto i cristiani, che sono circa il 10%. Favorire pertanto l’esasperazione dello scontro tra la maggioranza sunnita e il regime non è di vero aiuto per nessuno poiché una vittoria sul campo di quest’ultima non sarebbe l’inizio della democrazia ma semplicemente di una nuova dittatura, che a differenza dell’attuale non avrebbe la necessità di garantire o quantomeno di non negare la libertà religiosa con tutto ciò che positivamente ne consegue sul piano della libertà in genere.
Sarebbe perciò importante che l’Italia, in quanto Paese-chiave dell’Europa mediterranea, si adoperasse attivamente per favorire una soluzione concordata e non catastrofica della crisi del regime di Assad, come invece non interessa molto al Nord Europa atlantico. Può darsi che il regime di Assad abbia fatto il suo tempo, ma allora occorre facilitarne un’uscita di scena concordata per evitare che a una dittatura comunque “laica” faccia seguito un regime integralista islamico per di più sotto la protezione dell’Iran di Ahmadinejad.
Per questo, però, occorrerebbe avere un disegno di politica estera che peraltro, nel caso della Siria e del Levante in genere, manca da tempo. Avendo coinciso con l’inizio della crisi del governo Berlusconi e poi con tutto ciò che ne è seguito fino all’entrata in carica del governo Monti, la vicenda siriana – a parte estemporanee note di cronaca televisiva sui disordini e la loro repressione – non è stata purtroppo sin qui seguita in Italia con l’attenzione che merita. D’altro canto, cosa sorprendente ma vera, benché le relazioni internazionali abbiano un’incidenza cruciale sia sull’economia che sulla vita pubblica del nostro Paese, né i partiti, né la stampa ne parlano molto; e quando ne parlano di solito lo fanno in modo strumentale a esigenze contingenti di politica interna.
Basti pensare, ad esempio, a come in un battibaleno la Libia sia scomparsa dalla scena. Prima non passava giorno senza che ce ne parlassero in diretta da Tripoli come della questione più importante della quale dovevamo occuparci. Caduto Berlusconi e confermati i contratti dell’Eni, a Tripoli e a Bengasi possono fare quello che vogliono: a noi non ce ne importa più nulla. In circostanze poi straordinarie, come quelle che hanno portato alla formazione del governo Monti, è come se tutto il mondo cominciasse al Quirinale e finisse a Montecitorio (a parte la sponda dell’“Europa” che ormai nel bene o nel male non è più un vero “estero”). Perciò non ha tra l’altro suscitato la minima reazione il fatto che il presente governo sia deliberatamente nato senza alcun disegno di politica internazionale tanto da avere a capo del ministero degli Esteri un diplomatico in aspettativa: insomma più un commissario che un ministro.
Si può andare avanti così? A nostro avviso, l’Italia non se lo può permettere.