Il Senato francese ha approvato ieri la legge, che in precedenza era già passata alla Camera bassa, con cui si stabilisce che in Francia è reato negare il genocidio degli armeni perpetrato in Turchia nel 1915: un massacro pianificato che nell’arco di un anno costò la vita da un minimo di un milione a un massimo di un milione e mezzo di armeni, uomini, donne, vecchi e bambini. Manca adesso soltanto la sua promulgazione da parte del presidente Sarkozy, ma già il governo turco ha reagito duramente. Per meglio comprendere come mai questa tragedia avvenuta nell’allora Anatolia ottomana quasi un secolo fa sia ancora oggi di un’attualità politica così bruciante sia in Turchia che in Francia occorre ricordare da un lato che la nuova Turchia nata dalle ceneri dell’Impero Ottomano negli anni ’20 del secolo scorso ha sempre negato questo olocausto (anche perché se lo ammettesse l’ombra delle responsabilità al riguardo si allungherebbe fino a raggiungere il “padre della patria” Mustafà Kemal Atatürk). E occorre ricordare dall’altro che la massima parte dei superstiti, circa 600 mila, si rifugiarono in Francia dove i loro discendenti hanno tra l’altro una forza elettorale che nessun candidato alle imminenti elezioni presidenziali può ignorare; tanto più Sarkozy che per il momento i sondaggi danno per perdente. A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che Sarkozy è figlio di un ebreo di Salonicco che nacque cittadino ottomano in una città dove i suoi antenati espulsi dalla Spagna erano stati accolti e avevano potuto prosperare. Il governo di Ankara non ha esitato perciò ad accusarlo per questo di sconveniente ingratitudine; e lui, nel tentativo di salvare il salvabile, arrampicandosi arditamente sui vetri ha già comunicato al premier turco che la legge in questione non si rivolge contro nessun Paese in particolare.



Prima di procedere oltre nell’esame della questione vale la pena di dare qualche ulteriore informazione sul genocidio armeno, forse ignoto a molti e soprattutto ai più giovani, tanto più che ben raramente i manuali di storia ne parlano (mi si permetta di dire che una di queste rare eccezioni è Alle radici del domani, una manuale per scuola secondaria di primo grado, ultimamente edito dalla De Agostini, che venne realizzato anche con il mio contributo). Quello degli armeni fu il primo dei tre grandi genocidi del ’900; e ci sono prove che la reazione internazionale relativamente modesta che esso suscitò fecero pensare a Hitler che si sarebbe potuto lo stesso con gli ebrei senza dover mettere in conto un contraccolpo insostenibile sulle relazioni della Germania con il resto del mondo.  Edito per la prima volta nel 2004 e poi più volte ristampato, La masseria delle allodole, un romanzo scritto dalla scrittrice italo-armena Antonia Arslan rielaborando memorie di famiglia, delinea un quadro realistico e commovente di quella immane tragedia: è una lettura da raccomandare a chiunque voglia farsi un’idea di ciò che fu il primo genocidio del ‘900.



Tornando alla vicenda dei nostri giorni, ci si può domandare se abbia molto senso, e addirittura se non abbia paradossalmente venature neo-autoritarie, il varo di leggi che trasformano in un reato penale la negazione dei genocidi. In Francia già era stato fatto con il genocidio nazista degli ebrei, la Shoah, e adesso lo si va a fare con quello turco degli armeni. E’ vero che la tendenza a ridurre anche i fatti ad opinione è un pericoloso cancro del mondo in cui viviamo, ma non è con le sanzioni legali che si possono vincere battaglie che vanno combattute piuttosto con la virtù cardinale della fermezza e con le armi della ragione. Ciò premesso – prima di essere una spada di Damocle sempre pendente sulle sue relazioni internazionali in particolare ma non solo con la Francia e gli Stati Uniti (dove pure gli armeni sono oggi numerosi) – la pretesa della Turchia ufficiale di negare il genocidio armeno in primo luogo non fa bene alla Turchia stessa. Una colossale censura di questo genere, infatti, provoca per contraccolpo tutta una serie di altre censure e di altre menzogne nella vita pubblica della Turchia: in primo luogo l’idea che possa esserci una realtà ufficiale diversa dalla realtà senza aggettivi, il che non aiuta questo grande Paese a fare i conti con se stesso. Rientra a mio avviso in tale preoccupante prospettiva anche il mito dell’ingresso nell’Unione Europea. La Turchia è la metropoli di un lungo arco di popoli turcofoni che inizia nella Cina nord-orientale e arriva fino ad Adrianopoli, fino al suo lembo di territorio che si estende in Europa (che però non basta a farla definire un paese europeo non meno di quanto le città di Ceuta e Melilla, ex claves spagnole sulla costa del Marocco, non basterebbero a far definire la Spagna un paese africano).



Combinandosi con la sua collocazione ai confini con l’Europa, il suo ruolo di principale paese turcofono dà alla Turchia una importante funzione potenziale di tramite tra Occidente e Asia centrale che invece perderebbe se diventasse l’ultimo membro dell’Unione Europea. Invece di cullarla in un’illusione che tutti sappiamo resterà tale, l’Unione Europea dovrebbe piuttosto proporre alla Turchia delle relazioni di speciale prossimità in quella prospettiva. Altrimenti, come adesso sta facendo, Ankara cerca di consolarsi della lunga attesa nell’anticamera dell’Unione Europea volgendosi sulle orme del suo passato ottomano verso la Siria e la Mesopotamia (oggi Iraq), dove i turchi sono tanto popolari quanto i tedeschi in Polonia: una strada che la porta per di più all’attrito con l’Iran. E noi, che siamo l’unico paese membro del G8 esclusivamente bagnato dal Mediterraneo, non ce ne occupiamo perché troppo assorbiti dalla vertenza dei tassisti e da quella dei farmacisti?