Ahmadinejad minaccia Israele con l’atomica, ma di fatto con i test nucleari scatena l’inimicizia contro l’Iran da parte dell’intero universo musulmano. E’ l’analisi di Michael Herzog, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, intervistato da IlSussidiario.net. Per l’esperto “il conflitto in corso non è solo tra Israele e l’Iran, ma anche tra l’Iran e il cuore del mondo arabo”. Il popolo iraniano da un punto di vista etnico è un’entità completamente diversa dagli arabi, e a dividerli c’è anche il fattore religioso: sciiti gli uni, in maggioranza sunniti gli altri. Per Herzog quindi l’ultima sfida di Teheran, che ha lanciato un missile nel Golfo Persico subito dopo l’annuncio di nuove sanzioni Usa per il nucleare, rischia di fare naufragare definitivamente il sogno iraniano: erigersi a leader di tutti i Paesi islamici. Secondo l’esperto sono due le strategie attraverso cui è possibile scongiurare una guerra: la ripresa dei negoziati israeliano-palestinesi e la difesa dei cristiani facendo leva sulle relazioni economiche tra l’Occidente e i governi islamisti.



Qual è la vera origine del conflitto tra Iran e Israele, che domenica ha registrato un nuovo pericoloso capitolo?

Le cause delle tensioni tra Iran e Israele sono ben note: il programma nucleare iraniano e gli effetti destabilizzanti di Teheran nei confronti di tutto il Medio Oriente. Tanto che Israele non è il solo Paese a essere preoccupato per il programma iraniano di arricchimento dell’uranio. Lo stesso mondo arabo sunnita, a partire dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo, è molto preoccupato, come pure la Turchia. Ciò non significa che questi Stati siano interessati a un conflitto militare o a una soluzione bellica contro l’Iran, ma certamente non vedono in modo favorevole il fatto che Teheran riesca a dotarsi di armamenti nucleari.



Ma Ahmadinejad non vorrebbe presentarsi come il modello per tutto il mondo musulmano?

Dopo l’inizio della Primavera araba, due Stati non arabi stanno cercando di offrire un modello islamico al mondo arabo: Iran e Turchia. Teheran rappresenta lo Stato teocratico, Ankara il tentativo di combinare democrazia e un Islam più “morbido”. Non sono però sicuro che il mondo arabo adotterà uno di questi due modelli, anzi è probabile che ne svilupperà uno del tutto differente: ne è un segno la vittoria dei partiti musulmani in una serie di elezioni.

La crisi iraniana, gli scontri tra sciiti e sunniti in Iraq e la rivoluzione siriana rischiano di fare esplodere l’intero Medio Oriente. Che cosa dovrebbe fare Israele per evitare una guerra nell’intera regione?



Nella sua domanda sono presenti diversi elementi, e non tutti sono direttamente legati tra di loro. Da una parte c’è il Medio Oriente che sta attraversando delle trasformazioni drammatiche, dall’altra c’è lo scontro tra sciiti e sunniti, con una serie di tensioni che non hanno nulla a che fare con Israele. Gli Stati arabi generalmente sono ostili allo Stato d’Israele, che inoltre è preoccupato soprattutto per la crescita di elementi islamisti. Ma nello stesso tempo gli elementi radicali in Medio Oriente stanno attraversando alcune difficoltà. In Israele è in corso un dibattito su quale dovrebbe essere il corretto approccio nei confronti del mondo arabo. Una scuola di pensiero sostiene che quando tutto è in movimento, la migliore strategia è restare fermi. Mentre una seconda scuola, cui appartengo, è convinta del fatto che Israele dovrebbe prendere l’iniziativa, perché se non lo fa gli spazi lasciati vuoti saranno riempiti da forze negative.

Gli Usa hanno deciso di adottare sanzioni contro l’Iran. Quella di Obama è una politica estera coerente?

E’ molto difficile riuscire a vedere una strategia americana in Medio Oriente: gli Usa stanno cercando di reagire ai drammatici avvenimenti degli ultimi mesi, e non sono in grado di plasmarne la realtà. La capacità degli Usa di condizionare gli avvenimenti in Medio Oriente è infatti sempre più debole, e di recente hanno ottenuto alcuni successi ma sono anche andati incontro ad alcuni fallimenti. Per esempio Washington non è riuscito a riaprire dei negoziati tra Israele e Palestina. Sono riusciti a indirizzare le pressioni internazionali contro l’Iran, incluse le sanzioni, ma questo non è bastato a impedire a Taheran di arricchire l’uranio. Il fatto è che l’amministrazione Usa sta cercando di entrare nel merito di ogni singola situazione con un approccio diverso, e questo fa sì che ciascuna loro decisione possa apparire incoerente anche se non lo è.

Israele è alleato con l’Arabia Saudita, che finanzia il fondamentalismo wahabita in tutto il mondo. Perché il governo israeliano non fa pressioni sui sauditi?

In realtà, Israele ha sollevato la questione dei finanziamenti sauditi ai movimenti fondamentalisti islamici. Anche se non sono convinto che i finanziamenti provengano innanzitutto dal governo saudita: probabilmente la parte più consistente è erogata da privati. Israele si è mosso attraverso canali diplomatici, e non con modalità pubbliche. Altrettanto hanno fatto gli Usa. I sauditi cercano di dare un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato hanno paura dell’Islam radicale, dall’altro lato hanno bisogno di tenersi buoni i vertici del clero sunnita.

In un Medio Oriente sempre più vicino alla guerra, quale può essere il ruolo dei cristiani?

I cristiani devono e possono giocare un ruolo importante, colmando le distanze tra i diversi gruppi religiosi e creando un dialogo interconfessionale. Ma prima ancora, credo che dovremmo rispondere a un’altra domanda: in una regione dove l’Islam politico sta crescendo, come è possibile proteggere le comunità cristiane? I numerosi cristiani presenti in Egitto, Iraq, Libano e Palestina vanno difesi.

In che modo è possibile farlo?

La comunità internazionale deve essere consapevole del rischio che corrono i cristiani e contribuire a proteggerli. Di fronte alla crescita delle forze politiche islamiste, occorre individuare criteri precisi per affrontare i partiti radicali e giudicare il modo in cui trattano le minoranze religiose. I governi arabi a causa della crisi finanziaria hanno bisogno del sostegno politico ed economico della comunità internazionale. Quest’ultima quindi dovrebbe utilizzare la sua influenza per incoraggiare queste forze a essere tolleranti nei confronti di tutte le minoranze religiose e specialmente i cristiani.

I palestinesi hanno rinunciato al riconoscimento di un loro Stato da parte dell’Onu?

In questo momento siamo di fronte a una pausa nelle attività diplomatiche perché Onu, Usa, Ue e Russia, il cosiddetto Quartetto Internazionale, hanno chiesto a entrambe le parti di impegnarsi fino alla fine di gennaio per preparare i prossimi incontri bilaterali. Nel frattempo però l’Autorità palestinese sta pensando di ripresentarsi di fronte all’Onu e agli altri organismi internazionali per continuare la sua battaglia. Se lo farà, le relazioni tra israeliani e palestinesi peggioreranno ulteriormente, senza riuscire a ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese, che può venire soltanto attraverso i negoziati. Oggi in Giordania si terrà il primo incontro tra le due parti, sponsorizzato dal re giordano, e spero che ci porterà delle buone notizie.

Che cosa ne pensa delle recenti proteste degli ebrei ultra-ortodossi?

Si tratta di persone che ritengono che la sola autorità non sia lo Stato bensì Dio. Ciò crea una serie di tensioni tra loro, le autorità pubbliche e la popolazione laica in Israele. Queste persone sostengono per esempio la totale separazione tra uomini e donne, a partire dagli autobus dove vogliono costringere le donne a restare nei sedili posteriori. Ma gli ultra-ortodossi fanno parte del dibattito culturale nella democrazia israeliana, che probabilmente continuerà. La nostra è una società estremamente vibrante, al cui interno ci sono sia il laicismo esasperato sia l’estremismo religioso, ed entrambi finiscono per creare delle tensioni sociali.

(Pietro Vernizzi)