Il 3 ottobre il presidente Barack Obama e lo sfidante, il prescelto dei Repubblicani, il sessantacinquenne Willard Mitt Romney, si affronteranno per la prima volta in un pubblico dibattito televisivo. Molti considerano questi confronti decisivi ai fini dell’esito del voto del 6 novembre. Ne seguiranno altri due, il 16 ed il 22, intramezzati dal “Dibattito vice-presidenziale” dell’11 ottobre.
Roba che bisogna guardare, anche quello dei “vice”, Biden e Ryan, i due cattolici che si fronteggiano da sponde opposte. Siamo al culmine della campagna elettorale, alla sfida in diretta dei duellanti, ed il confronto sarà duro. Per quello che può esserlo in America. Già, ma com’è il confronto politico in America? Cos’è la politica, la gestione della “res publica” per gli americani? Non è facile farsene un’idea a meno che si viva qua da un pezzo. Anche gli osservatori più attenti dovrebbero essere un pochino più… attenti e venire ad osservare sul campo.
Ma non solo sul “campo elettorale”, perché quello che accade (e non accade) durante la campagna presidenziale (ed in parte durante quella delle elezioni “mid-term”), viene da più lontano. Come sempre ci vogliono tempo e condivisione per capire qualcosa che non si conosce. In questo mese e poco più che ci separa dall’Election Day vorrei provare ad offrirvi qualche notizia e qualche osservazione con l’obiettivo (ambizioso?) di farvi guardare a quel che sta succedendo qua “out of the box”, al di là degli stereotipi interpretativi tipici della politica italiana. Non dico “condividere”, ma capire qualcosa, sì. Per cominciare a capire mi pare proprio che ci sia una premessa da fare su come un cittadino statunitense concepisce la “cosa pubblica”.
Senza avventurarci in disquisizioni filosofiche (abbiamo già scomodato Aristotele), si può semplicemente dire che l’americano non si aspetta altro dal suo paese che… la strada da correre, la prateria da conquistare, una terra da coltivare. O per dirla con le parole della “Declaration of Independence” del 1776, si aspetta che lo Stato – e quindi la politica – difendano, affermino e diano spazio ai tre grandi diritti inalienabili su cui è fondato questo paese: vita, libertà e ricerca della felicità.
E se vogliamo dirla con John F. Kennedy, usando le parole del suo arcinoto “Inaugural Speech” (discorso di investitura, 20 gennaio 1961), “non chiedete cosa possa fare il Paese per voi: chiedete cosa potete fare voi per il Paese”. Certo, oggi come oggi l’America si dibatte nella palude di una crisi economica epocale, con un tasso reale di disoccupazione ben oltre il 10%, e tutti vorrebbero che il presidente (nuovo, o il vecchio che sia) sapesse cosa fare per il Paese, fosse in grado di guidare la nazione verso lidi sicuri. Tutti vorrebbero qualcuno in grado di operare il miracolo del cambiamento. Ma non per essere “a posto”, per poter ripartire alla conquista della prateria.
Ma da questo ad andare fisicamente a votare ce ne corre. Diamo un’occhiata ai numeri. Nel 2008 Barack Obama vinse al termine di una campagna elettorale piena di entusiasmo ed intitolata alla “speranza” in cui votarono il 57% degli aventi diritto. Un passo avanti, in termini di votanti, rispetto al 55% che quattro anni prima aveva permesso a George Bush di conquistare il suo secondo mandato, un risultato pirotecnico rispetto al miserando 49% di Clinton II, ma niente di straordinario se paragonato al 63% di John F. Kennedy che nel 1960 prevalse d’un soffio, ed in maniera non tanto trasparente, su Nixon. In verità, se ribaltiamo un momento i numeri, possiamo dire che Obama nel 2008 vinse con il consenso di neanche il 30% degli americani che avrebbero potuto votare, e che se qualcuno fosse riuscito a trovare l’appoggio di tutti coloro che scelsero di non esprimersi, costui avrebbe stravinto.
Bene. Adesso abbiamo una prima, sommaria, fotografia del rapporto dell’americano con la politica attraverso l’espressione del diritto politico supremo, il diritto di voto. E questa fotografia ci dice una cosa su tutte: gli americani non votano. Da una parte questo fatto ci fa capire l’importanza vitale dei prossimi dibattiti televisivi. Gran parte dei 60 milioni di americani che li seguiranno saranno proprio quei voti “up for grabs”, in palio, da conquistare. Dall’altra lascia aperta la grande domanda: ma perché non si vota?