“Usura, lussuria e potere”. Eliot non diceva per scherzo. Se si guarda solo a se stessi non ci sono che questi tre idoli a dettare il cammino della vita. O quantomeno a dettare dove vorremmo che la vita ci portasse. Ieri sera seguendo il secondo dibattito presidenziale tra Barack Obama e Mitt Romney, stamattina leggendo storie di politica italiana, mi sono venuti in mente Eliot ed i suoi Cori da La Rocca. Si, quelle tre bestie, imbellettate ed attraenti, sono come un’ombra che segue ogni nostro gesto, pensiero, azione, ogni nostro tentativo, anche il più nobile. Perché, come diceva san Paolo, finiamo per fare il male anche quando vogliamo fare il bene.
Ne siamo consapevoli? Siamo consapevoli della nostra limitatezza e del fatto che siamo chiamati, in tutti i campi della vita, a vivere l’impossibile, a vivere, a fare ciò di cui non siamo capaci?
E’ questo che mi rodeva dentro ieri sera mentre ascoltavo i pretendenti al trono di quello che si definisce il più grande Paese del mondo. Capisco che si debba mostrare capacità di leadership, capisco che si debba mettere in mostra quel “resolve”, quella determinazione che i tempi duri che viviamo invocano. Soprattutto quando le cose vanno male, il bisogno di riporre la speranza in qualcosa, in qualcuno, si fa di un’urgenza drammatica. A meno che ci si arrenda allo scetticismo, e si rinunci cinicamente a prendere sul serio quel che il proprio cuore – magari nel segreto di se stessi – non smette mai di gridare: io sono fatto per la felicità.
Capisco anche che in una sfida all’ultimo sangue, in una sfida che sembra avere in palio il potere assoluto, la debolezza tua sia la forza mia, gli errori tuoi siano la mia terra di conquista. E le parole… le parole sono frecce incendiarie scagliate diritte al midollo della nostra istintività per costringerci ad una scelta di campo rapida e priva di ragioni se non emotive. Come una canzonetta fatta per piacere subito, senza neanche sfiorare il profondo del nostro essere. L’abbiamo visto ieri sera, lo leggiamo nelle cronache di politica. Lo viviamo tutti i giorni sulla nostra pelle, lo facciamo vivere a tutti quelli con cui abbiamo a che fare.
E’ come se a tema ci fosse l’infallibilità. Anzi, è proprio cosi: a tema c’è l’infallibilità. Non la mia! Io sono uno qualsiasi, e poi, via, i miei errori sono tutti perdonabili. Ma da chi ci guida ci aspettiamo l’infallibilità.
“Peccato!”, come diciamo in italiano quando qualcosa che avrebbe dovuto essere non è. E anche l’inglese “sin” (lo sono andato a cercare!) ha originariamente una etimologia analoga: mancare il bersaglio. E’ questo fattore umano, di profonda ed inevitabile verità umana, che sembra non entrare mai in gioco.
E anche se non avessimo simpatia alcuna per il Vangelo con i suoi “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” o “vedo la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel mio”, dovremmo poterci riconoscere in Eliot.
Mi riempirebbe di speranza sapere che il presidente del Paese in cui vivo si ritrovi in queste parole del grande scrittore Inglese, non che cerchi di convincermi della sua impossibile infallibilità.
Quindi sembrò
come se gli uomini
dovessero procedere
dalla luce alla luce,
nella luce del Verbo.
Attraverso la Passione
e il Sacrificio
salvati a dispetto
del loro essere negativo;
bestiali come sempre,
carnali,
egoisti come sempre,
interessati e ottusi
come sempre
lo furono prima,
eppure sempre in lotta,
sempre a riaffermare,
sempre a riprendere
la loro marcia sulla via
illuminata dalla luce.
Spesso sostando,
perdendo tempo,
sviandosi, attardandosi,
tornando, eppure mai
seguendo un’altra via.
(Eliot)