Possibile apertura fra Iran e Stati Uniti alla vigilia del voto americano. La notizia è stata diffusa dal sito internet del New York Times, che  cita funzionari americani secondo i quali Washington e Teheran avrebbero avviato negoziati bilaterali diretti sul nucleare iraniano. Un punto di svolta per la campagna elettorale del presidente uscente Barak Obama. La Casa Bianca ha diffuso una nota di smentita che tuttavia lascia capire che il tema è all’ordine del giorno. Teheran avrebbe, fra l’altro, insistito nel chiedere agli Usa che i colloqui inizino dopo il 6 novembre, giorno di apertura delle urne, poiché intendono sapere con quale presidente andranno a negoziare. Anche l’Iran, dopo la Casa Bianca, smentisce ci sia un accordo per colloqui diretti sul programma nucleare. Lo afferma il ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Salehi, precisando che continuano i negoziati di Teheran nel formato 5+1. Per IlSussidiario.net, abbiamo chiesto un commento a Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica.



Jean, come giudica, se confermata, la mossa della Casa Bianca?

E’ stata una manovra corretta e in linea con la politica estera americana. E’ la naturale prosecuzione dei colloqui già avviati nel 2006, durante l’amministrazione Bush, quando sembrava che un accordo fosse a portata di mano: infatti, il National Intelligence Estimate cioè il coordinamento delle sedici agenzie di spionaggio Usa, avvertì del pericolo dell’arricchimento del nucleare iraniano e che gli Stati Uniti avrebbero dovuto accordarsi con Teheran.



Perchè proprio ora alla vigilia del voto?

Soprattutto per smorzare alcuni “ardenti spiriti” in Israele ed evitare che la possibile rielezione di Obama possa essere compromessa da una nuova iniziativa di Tel Aviv anche se, personalmente, la ritengo altamente improbabile. A ogni buon conto, secondo me, il problema degli Stati Uniti non è il nucleare ma l’equilibrio nel Golfo, in particolare, il fatto che la Repubblica Islamica non aizzi le minoranze sciite negli Emirati Arabi e nell’Arabia Saudita creando il caos completo.

Quali sarebbero le conseguenze?

In primis, verrebbero presi di mira i pozzi di petrolio, con attentati contro i giacimenti o gli impianti di riprocessamento, oppure verrebbe interrotto il flusso di petrolio. Un danno che si ripercuoterebbe sull’intera economia mondiale e, di conseguenza, anche sugli Stati Uniti.



 

Che impatto avrebbe la conferma di questa notizia sulla campagna elettorale, ormai agli sgoccioli?

 

I temi cari agli elettori, che sono poi quelli su cui dibattono maggiormente i candidati, non comprendono la politica estera, che interessa solo una minoranza degli americani alle urne. Ciò che sta a cuore ai cittadini Usa è l’economia domestica, l’inflazione, la sanità, la disoccupazione, la crescita economica e gli investimenti. Sono questi i focus su cui si basa la campagna elettorale e cioè se lo Stato federale debba intervenire in maniera pesante e “keynesiana” sull’economia, oppure debba avere mano leggera e lasciare ampia libertà ai cittadini.

 

Sempre se confermato, cosa ha spinto l’Ayatollah Khamenei a dare il benestare necessario all’avvio dei negoziati?

 

Teniamo conto che l’Iran è il Paese in cui l’opinione pubblica è maggiormente favorevole all’Occidente, è, cioè, più occidentalizzata di tutte le altre nazioni del Medio Oriente. Mentre negli altri Paesi arabi l’opinione pubblica è nettamente anti-europeista e i governi sono filo occidentali, in Iran è il contrario, sebbene il Governo sia profondamente diviso dallo scontro fra i “laici” e gli Ayatollah. Questo scontro ha indebolito la posizione negoziale iraniana, così come la politica delle sanzioni messa in campo da Washington e dall’Unione Europea ha avuto pesanti effetti sull’economia iraniana.

 

Questo è il segno del fallimento dei negoziati del Gruppo 5+1?

 

Il Gruppo 5+1 cioè i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina, più la Germania, è una specie di sovrastruttura. Il cuore della questione si gioca fra Iran e Stati Uniti, che possono portare con sé gli altri Stati del Golfo: gli altri Paesi contano poco per il successo della trattativa fra due potenze.