Winnsboro, Louisiana. 4.900 anime nel profondo sud dell’America, quella dove non ci capiti neanche per sbaglio. L’America dove è sempre caldo e umido, l’America delle paludi, alligatori e zanzare, dove la vita scorre pigra come il Mississippi River, a poche miglia da lì. In questo sperduto angolo del mondo una ragazza di vent’anni, Shameka Moffitt, sta lottando tra la vita e la morte dopo una selvaggia aggressione che l’ha lasciata con il 60% del corpo bruciato. Sessanta per cento, come le persone di colore che vivono lì. Anche Shameka lo è. E sebbene la polizia non abbia ancora un barlume di indizio o di idea rispetto al movente, quel corpo bruciato pesa già come un macigno sulla coscienza di tutti. Non si sa chi è stato, non si sa perché, ma tre cappucci bianchi e tre “K” tracciate sull’auto di Shameka agitano spettri di cui nessuno vorrebbe sentir parlare. Soprattutto in campagna elettorale, soprattutto in una campagna elettorale in cui il Presidente uscente è il primo African-American nella storia degli Stati Uniti.



Non penso sia un caso che né CNN, né New York Times – e neppure i principali giornali della Louisiana – ne parlino. Curioso, no? Prima pagina di tutti i giornali Euopei, niente in America. Perché?

Anche se non si può ancora affermare che si tratti di un “hate crime”, il solo pensiero di un’aggressione a sfondo razziale introduce una variabile di cui nessuno credeva di dover più discutere. Una variabile di cui nessuno vorrebbe mai discutere. Per due ragioni:  una sociale, una assolutamente politica. E non sono affatto sicuro di quale venga prima.



Il Ku Klux Klan esiste ancora. Certo, i cinquemila o giù di li che ci si riconoscono non vanno in giro ad infiammare croci e ad impiccare come (soltanto) cinquant’anni fa. Non dimentichiamoci che “Strange Fruit”, quel dolente brano di Billie Holliday che parla di linciaggi ed impiccagioni è di poco prima della seconda Guerra mondiale, non dimentichiamoci che la strage della 16th Baptist Church di Birmingham, Alabama, avvenne nel ’63, che ML King venne assassinato nel ’68, e che le rivolte razziali a Los Angeles sono di soli venti anni fa. La violenza razziale fisica, gratuita e disumana, ormai grazie al cielo, alberga in pochissimi. 



Ma la “distanza della vita” c’è, eccome, soprattutto al sud, dove non esistono più mura a separare bianchi e neri, ma le esistenze scorrono su percorsi e piani diversi: i bianchi sono bianchi, i neri neri. Ognuno al suo posto. Integrazione? Sì, nelle metropoli, dove, circondati da duecento etnie diverse, ci si abitua un po’, e non ci si scompone più di un tanto quando non si è tra caucasici… Ma è un fatto che ogni etnia preferisce se stessa, e per quanto si impari ad essere politically correct nel relazionarsi, in fondo al cuore gli altri sono altri. Cosi come per il Ku Klux Klan lo sono stati dapprima i neri, poi gli ebrei, i comunisti, gli omosessuali e ora, dopo aver documentato la loro diversità, i musulmani.

E così si arriva alla politica. O meglio, non ci si arriva. Perché nessuno vorrebbe né ricordare queste cose, né parlarne. Né i bianchi né i neri. Nessuno vuole destare il minimo sospetto di possibili strumentalizzazioni, nessuno vuole mettere a tema una cosa del genere. Nessuno vuole pensare che tra due settimane la scelta sia tra il candidato di colore ed il bianco. E infatti nessuno ne parla. Perché se è vero che non è difficile guardare a quella povera ragazza a Winnsboro e pensare ai suoi assalitori vedendo i buoni ed i cattivi, non sarebbe altrettanto semplice guardare così all’uomo bianco ed all’uomo nero, perché la vita non è un film … 

Così la stampa tace, e i candidati hanno già il loro bel da fare a tentare di convincere gli elettori che loro si che saranno in grado di superare le nuove discriminazioni: quelle verso le donne, gli omosessuali, etc. Sono questi i nuovi African-Americans portati sugli scudi della politica alla conquista della società civile.

Shameka Moffitt deve per forza essere solo un incidente di percorso.

O no?