Oggi KD, la nostra padrona di casa, ha insistito per portarci nella zona in cui avevamo il banchetto. Doveva andare in centro a recuperare il figlio a scuola e ne ha approfittato per darci un passaggio. E’ stato interessante, perché in auto abbiamo fatto un percorso molto diverso da quello che facciamo di solito: siamo passati in mezzo a Faramount Park, il più grande parco urbano d’America, e abbiamo costeggiato lo Schuylkill River, il fiume che taglia a metà la città, celebre per le gare di canottaggio (una sorta di Tamigi locale).



Ma non sono tanto le bellezze naturalistiche ad averci colpito, quanto una frase buttata lì dalla signora a uno stop. “Questa è la nostra chiesa” ha detto. La cosa ci ha incuriosito, perché era a chilometri da casa, e lungo Lincoln Avenue ne avevamo già viste passare parecchie. Perché fare tutta quella strada per andare a messa? E allora abbiamo incominciato a chiedere: “Battista?”, “Protestante?”, “Cattolica?”. Abbiamo provato con tutte le confessioni religiose che ci venivano in mente, ma nulla da fare. E allora è stato il suo turno di rispondere: è la “Unitarian Universalist Church“, ci ha detto. Ci spiega che è una chiesa molto liberal, al cui interno si trova un po’ di tutto: atei, agnostici, credenti di vario genere. Un’istituzione molto difficile da comprendere per noi, ma non per gli americani: qui la norma è che ogni gruppo si faccia una chiesa, a sua immagine e somiglianza. Per cui c’è la chiesa dei nudisti in Virginia, ma anche quella dei cowboy nell’Iowa. Un po’ come noi costituiamo circoli o associazioni. Infatti, da come ce la descrive KD, la sua chiesa sembra più un circolo intellettuale, che un luogo di culto. Un circolo dotato di una certa vena poetica, visto che ossimori come “unitaria” e “universale” perfino Pascoli avrebbe fatto fatica a trovarli.



Ma non è stato l’unico assaggio di America profonda della giornata. Per la prima volta da tre giorni, in momenti diversi, si sono avvicinati al nostro banchetto ragazzi che sostenevano Romney. In fondo, siamo da tre giorni fuori da un’università ed era strano non aver mai avuto occasione di incontrarne uno sino a oggi. Sono due i concetti comuni, che tutti i ragazzi hanno tenuto a ribadire. Il primo: una delle più grandi paure che nutrono è, testuale, “finire come l’Europa”. E ti snocciolano la storia di Spagna e Grecia (sorvolano sull’Italia, una volta che hanno capito da dove veniamo). 



Il secondo, molto legato al primo: Obama ci trascinerà a fondo perché è un “socialista”, affascinato dalle politiche di spesa europee. Niente di sorprendente, per carità, ma la testimonianza di una distanza culturale profondissima fra i paesi europei e gli Stati Uniti: Obamacare e riforma dell’istruzione sono misure che in Italia nemmeno i partiti più liberali o conservatori avrebbero proposto. Mentre qui, per larghe fette della popolazione, sono inspiegabili cedimenti alla tentazione della spesa pubblica. Mi piacerebbe dirgli di fare un salto da noi, ma penso andrebbe oltre ogni loro umana comprensione.

Infine, con oggi abbiamo capito che si fa sul serio. Niente più training con Natalia o Laila: ora si fa direttamente online con i capi di Chicago (città dove si trova l’headquarter di Obama), in videoconferenza, con la possibilità di chattare. Senza che vi annoi con i contenuti, per i cultori della materia qui c’è il link con la registrazione della spiegazione. Il messaggio in ogni caso è chiaro: il prossimo weekend si fanno le prove generali del Get Out the Vote (i quattro giorni prima del voto). Poi, come a teatro, finito di provare inizia lo spettacolo. E lì sbagliare non è più ammesso.

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