Oggi è stata una giornata diversa da tutte le altre. Molto più “italiana”, potremmo dire. Siamo partiti stamattina alle 9:30 dalla 30th Station, con un potente pullman della Megabus: direzione New York. Un pullman così potente che dopo un’ora e mezza di viaggio si è dovuto fermare in un’area di servizio e chiamare un meccanico. Ma poco importa, ciò che conta è che alla fine siamo giunti a destinazione.
Obiettivo della giornata: oltre a un giro a New York (che male non fa), sono in programma alcuni incontri. Prima di partire per la vacanza ho scritto ad alcune persone che potessero raccontarmi il loro punto di vista su queste elezioni, sull’operato di Obama, sulle prospettive in chiave futura. Volevo capirne di più, rispetto al poco che sarei riuscito a intuire rimanendo qui solamente le tre settimane prima del voto. Tra queste persone ci sono Massimo Gaggi, corrispondente del Corriere da New York, e Maurizio Molinari, inviato della Stampa, che incontro oggi.
Massimo Gaggi è stato vicedirettore di Ferruccio De Bortoli al Corriere della Sera dal 2000 al 2004: dalla fine di quell’esperienza si è trasferito a New York. È quindi la terza campagna elettorale americana cui assiste. Ha visto Kerry perdere con Bush e Obama trionfare nel 2008. Il suo ufficio è al quarto piano di un bell’edificio sulla 57esima: la particolarità è che ci si arriva da un ascensore interno, che parte dalla libreria Rizzoli del piano terra. “È una campagna strana”, è la prima cosa che mi dice. Non ha mai visto oscillazioni così forti nelle intenzioni di voto: a settembre Obama sembrava avere la vittoria in tasca. Dopo la convention democratica in North Carolina, il divario con Romney si era allargato a tal punto che i finanziatori repubblicani iniziavano a spostare i contributi dalla campagna per il candidato presidente a quella per senatori e deputati. Almeno salviamo la maggioranza al congresso, pensavano. E, invece, è bastato il primo dibattito per stravolgere la situazione: Romney è ora assolutamente in partita.
Con Maurizio Molinari, corrispondente della Stampa, ci incontriamo invece per cena, in un ristorante sulla Broadway. Anche lui è sorpreso della piega che stanno prendendo le cose: solo un mese fa la rielezione di Obama non era minimamente in dubbio. Ma dopo un po’ di discussione sulle elezioni americane, la conversazione scivola su un altro argomento: l’emigrazione italiana negli Usa. E non si parla di quella all’inizio del ‘900, ma di quella di oggi. L’argomento l’avevamo sfiorato anche con Gaggi, segno che il tema è sempre più attuale. Molinari mi spiega che al momento ci sono due tipi di italiani che arrivano negli Usa, e a New York in particolare. Una, l’emigrazione di qualità, c’è da molti anni. Sono laureati e professionisti che scappano dall’Italia a caccia di un lavoro all’altezza delle loro ambizioni. Storia risaputa, ma sentire certi aneddoti colpisce sempre. Mentre l’altra è recentissima (o antichissima, a seconda di come la si guarda): è l’emigrazione dei camerieri di Little Italy o dei manovali in nero. Partiti per raggiungere un parente, con solamente l’Esta in tasca (il visto per turismo che dura tre mesi), arrivano qui in cerca di un lavoro qualsiasi.
La polizia di New York ha un registro in cui prende nota della nazionalità dei clandestini trovati: l’Italia ha il triste primato tra i paesi occidentali, con più di 5000 nostri connazionali scoperti a essere illecitamente sul suolo americano. Storie che ci riportano agli anni a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900. Ma allora eravamo un Paese che aveva appena conosciuto l’unità, con una struttura economica labile e un sistema istituzionale instabile. Oggi siamo (ancora per quanto?) la settima potenza del mondo. Ma siamo, al tempo stesso, un Paese che costringe giovani e meno giovani a scappare per costruirsi un futuro. Come se a cent’anni di distanza, in fondo, nulla fosse cambiato.