Quattro alpini italiani sono rimasti coinvolti in uno scontro a fuoco avvenuto nella provincia di Farah, in Afghanistan, durante un’operazione congiunta con l’esercito afgano. Uno di loro ha perso la vita a causa delle gravi ferite riportate: si tratta del caporale Tiziano Chierotti, 24 anni, mentre gli altri tre hanno subìto solamente ferite lievi. La Task Force South East, insieme all’unità del 207° Corpo dell’esercito afgano, era impegnata in una attività di pattuglia nell’abitato del villaggio di Siav, nel distretto di Bakwa, quando è stata attaccata con armi da fuoco da un gruppo di insorti. I nostri soldati hanno immediatamente reagito, uccidendo uno degli insorti, ma per uno dei quattro feriti italiani non c’è stato nulla da fare. Insieme a Germano Dottori, docente di Studi strategici nell’Università Luiss Guido Carli di Roma, commentiamo quanto accaduto, l’attuale situazione in Afghanistan e l’aumento di un fenomeno che ha causato in questi giorni anche la morte di due soldati statunitensi e di altri due britannici: si tratta di un attaco denominato “green on blue”, in cui militari in uniforme afghana, considerati dunque alleati, sparano contro militari occidentali. Dall’inizio dell’anno oltre 50 soldati dell’Isaf sono stati uccisi in questo modo.



Professore, cominciamo dall’attacco subìto dal contingente italiano. Cosa ne pensa?

E’ innanzitutto necessario sottolineare che il pubblico italiano non è esattamente al corrente di ciò che sta accadendo in Afghanistan, né i nostri media colgono più di tanto l’attuale scenario, soprattutto quando non sono direttamente coinvolti i nostri ragazzi. Attualmente avvengono circa tra i 3 e i 5mila episodi violenti al mese riconducibili ad azioni della guerriglia. In massima parte questi attacchi sono diretti contro bersagli civili o politici afgani ma spesso anche contro forze occidentali. Se avvengono circa 180 attacchi al giorno, esiste ovviamente una possibilità statisticamente significativa che anche gli italiani possano rimanere in qualche modo coinvolti.



Cosa può dirci dell’attività che al momento stanno conducendo i militari del nostro contingente?

L’attività italiana rientra nell’ambito della cosiddetta “transition strategy”, una strategia di ripiegamento graduale che nelle intenzioni dell’Alleanza Atlantica dovrebbe essere realizzata parallelamente al miglioramento delle condizioni sul territorio. In realtà le cose sono un po’ diverse.

Come mai?

L’azione italiana si svolge in molte occasoni in zone che non sempre sono pacificate: l’Afghanistan continua ad essere un Paese molto turbolento, dal futuro assai incerto, soprattutto dal momento che la presenza internazionale si sta via via riducendo.



Come giudica invece la recente uccisione dei militari britannici e statunitensi?

Sono rimasti uccisi in uno di quei cosiddetti attacchi “green on blue”, in cui forze teoricamente amiche aprono il fuoco contro i nostri soldati all’interno delle basi o durante lo svolgimento di attività operative congiunte. Si tratta di un fenomeno molto preoccupante che solo quest’anno ha già provocato oltre 50 vittime occidentali e che crea un attrito psicologico eccezionale sui militari: nessun soldato dell’Alleanza Atlantica in Afghanistan, infatti, può davvero sentirsi completamente al sicuro, in qualsiasi momento. Occorre poi tener presente anche un altro aspetto.

Quale? 

Veniamo a conoscenza di questi attacchi “green on blue” soltanto quando culminano nell’uccisione di qualcuno, ma in realtà ne avvengono molti altri in cui i colpi sparati dagli afgani collusi con i talebani non vanno a segno oppure procurano semplicemente il ferimento di qualche soldato.

Crede che dietro tali attacchi vi sia una specifica volontà del mullah Omar, leader dei talebani?

Non credo che il mullah Omar entri ancora in decisioni di natura tattica di questo tipo, ma è ovvio che chiunque lo faccia per lui ha sicuramente impresso un forte colpo, in particolare negli ultimi due anni, all’importante attività del sistema di sicurezza gestita dagli occidentali in Afghanistan. Bisogna però dire che si tratta di una pagina che sta per concludersi, anche se non è ancora chiaro quando.

Dopo le elezioni americane si saprà qualcosa di più?

Sicuramente dopo il 6 novembre tutto sarà più chiaro, anche perché non è detto che i percorsi di uscita dall’Afghanistan siano uguali nel caso di una riconferma di Obama o di una vittoria di Romney. Sono però dell’idea che Obama voglia ritirare le forze americane dall’Afghanistan solo perché è giunto alla conclusione che non vale la pena utilizzare così tanti uomini e risorse in un Paese che, nel caso in cui dovesse esplodere il caos, rappresenterebbe un problema soprattutto per Russia, India, Iran ed eventualmente Cina. Paesi che, in diversa misura, sono nemici o comunque partner problematici per gli Stati Uniti. 

Cosa potrebbe accadere in Afghanistan senza la presenza occidentale?

Nel momento in cui questa presenza dovesse assottigliarsi o addirittura sparire, il Paese tornerebbe a essere quello che è stato in precedenza, vale a dire il crocevia di un complesso gioco che coinvolge le potenze confinanti e ovviamente le articolazioni maggiori dell’Afghanistan. Il Paese non ha mai avuto una storia unitaria paragonabile a quella di un qualsiasi stato nazionale europeo e presenta un tipo di formazione politica del tutto differente, costituita da raggruppamenti di natura etnica molto diversi che faticano nel riconoscersi nella prospettiva di un forte stato unitario.

Cosa crede debba fare adesso l’Italia?

In questo scenario l’Italia ha assunto una linea molto chiara: si trova in Afghanistan perché sta rispettando l’impegno della sua alleanza con gli Stati Uniti, un accordo spesso utilizzato per conservare buoni rapporti con gli Usa e maturare una sorta di credito nei loro confronti. Questa linea è tuttora presente e l’Italia non a caso è tra quei Paesi che il prossimo anno ritireranno le più basse percentuali di truppe. Nel 2013 gli italiani diminuiranno il proprio contingente del 25-30%, non di più: rimarremo quindi fino all’ultimo e, in tutti i casi, non andremo di certo via prima degli americani.

 

(Claudio Perlini)