Tornati da New York, è arrivato il momento delle prove generali del voto. Per cui il weekend sarà interamente dedicato alla preparazione in vista del Gotv (3-4-5-6 novembre). Per Obama, nel frattempo, arrivano le prime buone notizie da diverse settimane a questa parte: i sondaggi lo danno vincente con buon margine in Virginia, uno degli stati chiave. In compenso, il principale quotidiano dell’Iowa, dove i due candidati sono testa a testa, per la prima volta in quarant’anni ha fatto un endorsement a un candidato repubblicano: la scelta è caduta su Mitt Romney. Non un buon segnale per Obama: in questo Paese le dichiarazioni di appoggio dei giornali, prima che un vantaggio in termini elettorali, indicano da che parte tira il vento e su chi scommettono i proprietari dei quotidiani. Quindi la battaglia prosegue nell’incertezza più totale.
Oggi al comitato è arrivato un nuovo ragazzo: si chiama You Chang e viene da Taiwan. Il padre è l’ex amministratore delegato della Johnson & Johnson asiatica (gli shampoo per i bambini) e la madre è un’editrice: l’hanno mandato in California per completare gli studi. E infatti è qui per un internship tra il suo college e Organizing for America. Più che un comitato iniziamo a sembrare un’armata Brancaleone: una field organizer olandese, due ragazzi italiani, un’americana appena tornata in patria (dopo dieci anni nelle isole caraibiche), un taiwanese. Quando si dice una squadra radicata sul territorio. Ma in fondo più passa il tempo e più capiamo che tutte le regole che sono fondamentali in Italia qui non contano. Qui è solo questione di calcoli e matematica. E per costruire un database aggiornato non serve essere nato nella via a fianco, così come per telefonare a qualcuno per ricordargli che deve votare non serve essere suo amico.
Stamattina siamo tornati a Girard, uno dei quartieri più poveri di Filadelfia. Entrare in quella zona continua a farmi un certo effetto: non fossi certo che trecento metri dietro di me c’è Ridge Avenue, una delle arterie principali della città, potrei benissimo trovarmi in una grande città del terzo mondo. Tralasciando la scena della retata, con dieci macchine della polizia che arrivano a sirene spiegate, che è cosa che può benissimo accadere in una qualsiasi periferia di una grande città, quello che colpisce è la povertà assoluta di questa gente. E non siamo caduti dagli alberi: qualche periferia nei paesi occidentali l’abbiamo vista. Ma qui è diverso: i cartoni da imballaggio alle finestre al posto dei vetri, le case frequentemente senza luce e quasi sempre senza telefono, porte murate dalla polizia per evitare che qualcuno si introduca negli appartamenti sfitti. E vedi bambini, tantissimi, che giocano nelle strade o ti scrutano da dietro le porte aperte dai genitori.
Ma tra tutte le scene, quella che più mi colpisce, è un anziano senza una gamba che viene ad aprirci la porta muovendosi a quattro zampe. Non ha protesi, né stampelle, né carrozzina, ci dice. Probabilmente perché non ha un’assicurazione sanitaria, penso io, ma non oso chiederglielo. Ed è proprio in quel momento che mi viene da pensare che l’America, quella che conosciamo da giornali e televisione, forse si è fermata dietro di noi.