La rielezione di Hugo Chavez a presidente del Venezuela pone degli interrogativi enormi sul futuro dell’America Latina, un continente spesso dimenticato e tuttora considerato, specie in Europa, come un’area di secondario interesse rispetto ad altri luoghi della Terra. Il peccato originale consiste proprio nell’aver trattato il Sud del mondo alla stregua di un territorio di mera conquista senza capire le enormi possibilità che offriva e, soprattutto, prendendo l’affinità culturale che ci lega non come un vantaggio relazionale, ma come un mezzo per far pesare ancora di più la sudditanza del “nuovo Continente” rispetto al Vecchio.
Non è nemmeno necessario leggere uno dei saggi più illuminati sull’argomento, il libro dello scrittore Uruguagio Eduardo Galeano intitolato Le vene aperte dell’America Latina, per capire come, anche in tempi recentissimi, non sia cambiato poi tanto rispetto alla mentalità dei Conquistadores di secoli fa. La diplomazia internazionale, quella europea in particolare, ha compiuto errori clamorosi, pensando di trattare i paesi latinoamericani alla stregua di dependances di casa nostra. Ma i poteri economici non si sono comportati meglio, saccheggiando a più riprese varie Nazioni con manovre oltre il limite del lecito.
La reazione ce la potevamo aspettare, ma arriva in un momento di crisi dell’Europa stessa, cosa che aggrava ancor di più le conseguenze di questo rapporto. Proprio in Italia, negli anni Sessanta, il democristiano Amintore Fanfani aveva intuito l’enorme potenzialità dell’America Latina fondando l’Iila (l’Istituto italo latino americano), un’istituzione creata ad hoc per approfondire le relazioni, ma che purtroppo, a causa della cecità della nostra politica, successivamente alla nascita di questo Istituto, ha visto ridursi di molto le sue potenzialità pure a livello di interscambio culturale, fino a rischiare la sparizione.
Altro esempio poco illuminnate è il trattato firmato nel 1984 tra l’Argentina, appena uscita dal disastro della dittatura militare, e il nostro Paese. Si tratta di un accordo talmente importante da far dichiarare all’allora presidente argentino Raul Alfonsin, padre della nascente democrazia che “con questo l’Argentina è diventata la ventiduesima regione italiana”. Peccato che la cosa, da relazione bilaterale e interscambio economico che avrebbe permesso ad ambedue le nazioni vantaggi enormi, si afflosciò ancor prima di iniziare con una serie di scandali che sono stati poi portati alla luce dall’operazione Mani pulite solo anni più tardi. Stendiamo poi un velo pietoso sulla recente questione che ha implicato il governo italiano per l’estradizione (peraltro giusta nel concetto, ma assolutamente sbagliata nei metodi) di Cesare Battisti e otterremo un quadro che ci permette di capire ancora di più lo stato attuale delle cose.
Attualmente potremo dividere l’America Latina, politicamente, in due grandi aree. La prima è la più evoluta e di essa fanno parte Brasile, Cile e Uruguay, paesi che hanno superato le vicende nefaste degli anni Settanta attraverso un processo di pacificazione delle rispettive società che ha aperto le porte a poteri che si sono alternati, spesso politicamente all’opposto, ma sempre con un reciproco rispetto. E guarda caso sono anche le nazioni economicamente meglio messe, con previsioni di sviluppo notevoli e anche senza soverchi problemi occupazionali, visto che le immense risorse garantiscono un relativo benessere. Punto non secondario, la loro lotta alla miseria porta ogni anno tra il 2 e 3% della popolazione a elevare il suo stato economico uscendo dalle sacche della miseria.
Nelle nazioni che fanno parte della seconda area, invece, si sono cementati ormai da anni poteri che, dietro l’apparente rispolvero di ideali figli dell’illuminismo di stampo bolivariano e sanmartiniano, nascondono vere e proprie dittature o regimi che hanno monopolizzato non solo l’informazione ma interi settori dell’economia: essi sono il prodotto di quanto scritto sopra, di quella miope visione europea (e anche statunitense) che ha favorito il sorgere di una demagogia di ampio impatto sociale, dove le classi meno abbienti in molti casi ricevono sussidi fini a se stessi, non collegabili quindi all’implementazione di una cultura del lavoro, e dove spesso la storia anche recente è stata riscritta a uso e consumo di queste oligarchie.
Regimi che hanno portato alla cancellazione di qualsiasi diritto democratico, individuando nella classe media lavoratrice il cancro da estirpare. Paesi come l’Argentina, il Paraguay, la Bolivia e il Venezuela, dotati di immense ricchezze energetiche che spesso fanno da puntello economico all’implementazione di politiche ultrastataliste tali da far rimpiangere la vecchia Europa dell’Est, ma che rendono moltissimo e impattano celermente nelle classi meno abbienti, che si vedono assistite – vale la pena ripeterlo – nella loro inerzia totale, favorendola apertamente in cambio del suffragio popolare.
Certo, ci sono anche nazioni, come ad esempio il Venezuela, dove le classi lavoratrici meno abbienti hanno avuto la possibilità di accedere a mutui per ottenere una casa, oppure un ampio incremento della cultura: ma il prezzo pagato per queste giuste riforme è stato la fine della democrazia (sebbene in alcuni Paesi non sia mai esistita) e l’inizio di regimi equalitari solo nell’immagine.
L’ennesima vittoria elettorale di Chavez racchiude un pò tutto questo: chissà se l’Europa ha finalmente capito come comportarsi nei riguardi dell’America Latina, trattandola con pari dignità, o se continuerà nella serie colossale di errori che l’hanno contraddistinta finora. Un segnale positivo comunque c’è: risiede nel discorso pronunciato dall’avversario elettorale di Chavez, Enrique Capriles, molto conciliante e rispettoso dei valori democratici. Il che fa pensare, anche per l’altissimo consenso avuto dall’avversario, che a Chavez (complice anche la sua situazione personale) convenga una sostanziale apertura e abbandonare la tattica dello scontro.
E’ in questo varco che l’Europa si deve inserire, ma con una mentalità diamentralmente opposta dall’attuale, se vuole non solo instaurare delle relazioni degne di questo nome, ma anche iniziare un processo paritario che può essere anche la chiave della propria ripresa economica.