Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Mark Toner, ha reso noto per conto del presidente Barack Obama: “Abbiamo fretta di sostenere la Coalizione nazionale che apre la via alla fine del regime sanguinario di Assad e a un futuro di pace, di giustizia e di democrazia che tutti i siriani meritano”. La presa di posizione giunge al termine dei colloqui di Doha, in Qatar, che hanno portato a un accordo tra le varie opposizioni siriane in esilio e alla formazione di una “Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione”, presieduta dall’imam sunnita Ahmad Moaz al-Khatib. Ilsussidiario.net ha intervistato Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa da New York.



Gli Usa da mesi stanno inviando armi in Siria. Che c’è dietro alle dichiarazioni di Mark Toner?

L’amministrazione plaude alla svolta di Doha per due motivi. Primo: il Consiglio nazionale siriano si è dimostrato incapace di unire l’opposizione come di arginare i gruppi jihadisti e dunque era fonte di debolezza, giocando a favore del regime di Assad. Secondo: la nuova Coalizione nazionale è guidata dall’ex imam sunnita della moschea di Ummayad a Damasco, Ahmad Moaz al-Khatib, e dunque rappresenta la maggioranza della popolazione, ma ha anche una struttura interna di rappresentanza delle 14 province del Paese, consentendo una voce alle minoranze interne.



Si pensa alla creazione di zone protette da forze di peacekeeping, a una no fly zone o all’intervento militare?

La Casa Bianca resta contraria ad un intervento militare, in assenza di una legittimità internazionale causata dai veti di Cina e Russia all’Onu, ma l’emergenza umanitaria dovuta a oltre 30 mila vittime e un numero di profughi stimato dall’Onu in oltre un milione crea la cornice per la necessità di agire. Resta da vedere quali forme verranno concordate per farlo. La decisione in ultima analisi sarà “regionale”, come osservato a Washington. Ovvero dipenderà in prima istanza dalle decisione di Turchia e Lega Araba.



Il vero obiettivo degli Stati Uniti in Siria è difendere i diritti umani o infliggere un colpo mortale all’Iran, il principale alleato di Assad insieme alla Russia?

L’obiettivo di Obama è consentire alla stagione della Primavera araba di continuare a Damasco. Il presidente rieletto è convinto che diritti universali, libertà di espressione e riforme economiche siano la forza motrice del rinnovamento interno del mondo arabo e al tempo stesso in miglior antidodo contro i gruppi jihadisti ideologicamente legati ad Al Qaeda. Non c’è dubbio che la caduta di Bashar Assad potrebbe rivelarsi un duro colpo strategico per l’Iran ma il motivo per cui Obama sostiene l’opposizione siriana è lo stesso che lo ha portato a simili decisioni in Libia, Egitto, Yemen e Bahrein: sostenere il rinnovamento dall’interno di società imprigionate dai dispotismi. Il contrasto con Mosca è proprio nell’approccio alla Primavera araba, che il Cremlino teme considerandola fonte di instabilità. Obama e Putin ne parleranno presto.

 

I colloqui con l’opposizione siriana si sono tenuti in Qatar, il cui governo è una dittatura wahabita. Che cosa ne pensa del fatto che gli Usa, con la loro presa di posizione, accreditano il Qatar come un difensore dei diritti umani?

 

Il Qatar è, assieme alla Turchia, l’alleato di maggiore importanza di Washington nel Medio Oriente. Il motivo è che Doha, come Ankara, esprime un tipo di governo islamico moderato a cui l’amministrazione Obama guarda come modello di versione araba della democrazia. E’ nato proprio in tale cornice il sostegno di Washington al presidente egiziano Mohamed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani.

 

Nonostante l’opposizione siriana in esilio abbia trovato un accordo, sul campo continuano a esservi disertori dell’Esercito siriano, comuni cittadini, elementi di Al Qaeda, jihadisti e islamisti. C’è davvero chiarezza su quali di queste componenti siano realmente appoggiate dagli Usa attraverso l’invio di armi?

 

Ciò che sappiamo è che l’intelligence Usa ha creato delle posizioni nel Sud della Turchia da dove decide, di volta in volta, chi aiutare così come il Pentagono ha inviato almeno 150 consiglieri militari in Giordania per creare una zona cuscinetto nella quale accogliere i profughi, ai confini con la Siria, scongiurando infiltrazioni e attacchi da parte delle forze di Assad.

 

La presa di posizione Usa sulla Siria ha solo a che fare con l’esito dei colloqui di Doha, o anche con la rielezione di Obama che gli consente di muoversi più liberamente?

Obama vuole un’accelerazione della soluzione della crisi siriana perché la guerra civile gli pone tre problemi. Primo: è una strage di civili che rischia di restare come una macchia sulla sua amministrazione, come fu il Ruanda per Bill Clinton. Secondo: fino a quando continua, complica di molto gli sforzi per comporre il contenzioso israelo-palestinese. Terzo: la caduta di Assad aumenterebbe l’isolamento dell’Iran, accrescendo la pressione internazionale per ottenere la sospensione del programma nucleare.

 

Com’è il dibattito sulla Siria nell’opinione pubblica Usa e quali sono le principali posizioni che si confrontano?

 

La campagna elettorale e le polemiche sull’assalto di Bengasi hanno distratto l’opinione pubblica nelle ultime settimane ma resta un forte consenso bipartisan sulla necessità di sostenere l’opposizione e di arrivare alla caduta del regime di Assad.

 

I repubblicani condividono la scelta della Casa Bianca di appoggiare l’opposizione siriana?

 

L’ex candidato presidenziale Mitt Romney ha espresso tale sostegno con chiarezza durante il terzo dibattito, dicendosi anche contrario a invii di armi. Vi sono però altre posizioni, come ad esempio quelle del senatore dell’Arizona John McCain, che invocano con chiarezza l’invio di armi – anche pesanti – ai ribelli per ostacolare la repressione dei civili. In realtà comunque qualcosa sul terreno sta avvenendo perché i ribelli hanno iniziato ad abbatter jet del regime: dunque gli sono arrivati i missili a spalla tipo-Stinger. Resta da vedere chi glieli ha forniti.

 

(Pietro Vernizzi)