Un missile iraniano Fajr 5 proveniente dalla Striscia di Gaza ha colpito Tel Aviv. Non ci sono state vittime né feriti, ma la sfida lanciata dai palestinesi allo Stato ebraico ha superato il livello di guardia. Tanto che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha minacciato i palestinesi annunciando loro che “pagheranno il prezzo per il lancio dei razzi contro Tel Aviv”. Per il generale Carlo Jean, analista ed esperto militare, “il punto di non ritorno si raggiungerebbe soltanto se lo decidesse l’Egitto. Una marcia dell’Esercito del Cairo nella penisola del Sinai scatenerebbe la guerra in tutto il Medio Oriente, ma gli Stati Uniti non lo permetteranno mai. Il vero rischio è piuttosto che Assad approfitti dei 500mila profughi palestinesi presenti nel suo Paese per lanciare la terza Intifada ed estendere il conflitto siriano allo Stato d’Israele”.
Generale Jean, quella cui stiamo assistendo tra israeliani e palestinesi è una vera e propria guerra o sono soltanto schermaglie iniziali?
Più che una guerra è una serie di azioni e reazioni in cui entrambe le parti in causa vogliono mantenere un certo prestigio anche d’immagine nei confronti dei loro sostenitori internazionali. E’ ben difficile che ciò si traduca in un vero e proprio conflitto armato.
Eppure ieri i palestinesi hanno lanciato un missile iraniano su Tel Aviv …
Il risultato è stato quello di provocare una reazione ancora più dura da parte di Israele. D’altra parte il governo di Benjamin Netanyahu nei giorni scorsi aveva eliminato fisicamente il comandante militare di Hamas, Ahmed Al-Jabari. La reazione del partito palestinese è stata molto aggressiva proprio per tenere uniti i suoi sostenitori.
Quindi lei esclude che vi saranno conseguenze più profonde?
Non lo escludo a priori, ma non dipenderà né da Israele né Hamas, quanto da ciò che faranno Egitto e Turchia. Il pericolo per Israele non sono tanto Hamas o Hezbollah, ma il fatto che l’Egitto potrebbe mutare il suo atteggiamento nei confronti del Paese confinante, e in particolare rimette in discussione il trattato di pace di Camp David del 1978 tra Menachem Begin e Anwar al-Sadat.
Sarebbe l’inizio di una guerra?
Senza l’Egitto non si può fare guerra in Medio Oriente, con l’Egitto invece sì. Il Cairo è comunque molto dipendente dall’Occidente, molto integrato con gli Usa, ha bisogno degli aiuti di Washington, e anche la Turchia tutto sommato non può tirare troppo la corda. Non vedo quindi dei gravi rischi di un’escalation completa, si tratta soltanto di scontri locali.
Oggi però l’Egitto è governato dai Fratelli musulmani. C’è il rischio che reagisca in modo diverso dal passato?
Anche se il Cairo decidesse di dare qualche munizione in più ad Hamas, ciò non cambierebbe la sostanza delle cose, in quanto il partito palestinese sarebbe comunque schiacciato da Israele. La forza dei Fratelli musulmani è piuttosto nel fatto che governano un Paese come l’Egitto, il quale sta cercando di riacquistare il suo primato nel mondo arabo. Il presidente Mohamed Morsi potrebbe quindi essere portato a iniziare un braccio di ferro con Israele.
In che modo?
Per esempio stringendo degli accordi con Iran e Iraq, che rafforzerebbero notevolmente il fronte anti-israeliano nel mondo musulmano.
Qual è il punto di non ritorno da non superare?
Il punto di non ritorno non c’entra nulla con le dichiarazioni, anzi con le chiacchiere dei politici. La situazione diventerebbe drammatica e insostenibile soltanto se l’Esercito egiziano muovesse nuovamente nella Penisola del Sinai, militarizzandola e creando una minaccia abbastanza forte nei confronti di Israele. Sarebbe altrettanto grave se l’Egitto attuasse delle forti sanzioni contro lo Stato ebraico, per esempio tagliando le forniture di petrolio e di gas. Il presidente Morsi però non potrà superare certi limiti. Gaza è molto vicina alla Siria.
C’è il rischio di un’estensione del conflitto?
In questo momento in Siria si trovano 500mila palestinesi, che finora non si sono fatti coinvolgere dal conflitto. Una parte consistente di loro, circa la metà, è favorevole ad Assad proprio perché sono riconoscenti per il fatto di averlo accolto. L’altra metà anche per motivi confessionali sta con i sunniti in rivolta contro il presidente siriano. Non si può quindi escludere il rischio che Assad cerchi di estendere il conflitto, lanciando una terza Intifada. Molto dipenderà da che cosa farà Israele, che si trova in una situazione molto difficile perché è molto diviso da un punto di vista politico.
(Pietro Vernizzi)