Caro direttore,
stare all’altro capo dell’Oceano rispetto a Washington non per forza significa che di ciò che accade lì possiamo disinteressarci. Anzi, visto come sono andate le cose da quasi due anni a questa parte, credo che i fatti americani debbano interessarci eccome. Se poi si pensa che le decisioni di Washington hanno condizionato in maniera netta ed inequivocabile la stabilità del quadrante mediterraneo e mediorientale, allora occorre fermarsi e riflettere, guardandosi indietro in maniera intelligente. Certificando che non si tratta di dietrologia ma di realtà.



Non credo di dire una cosa insostenibile quando affermo che la storia americana è fatta, per sua natura, di complotti e di spy stories che hanno finito per condizionare tutte le decisioni del gigante a stelle e strisce. Le parole di Petraeus, ormai dimessosi dalla Cia e libero di raccontare una verità che in moltissimi avevano subdorato o ipotizzato, fanno davvero rabbrividire. L’attacco al Consolato di Bengasi, nel quale ha perso la vita l’ambasciatore Chris Stevens, non è stato un blitz del momento da parte di forze di protesta, ma un attacco terroristico studiato da tempo e ben conosciuto. Insomma, parafrasando le parole di Petraeus, Stevens non sapeva che la sua vita stava per essere messa a repentaglio da un’operazione di Al Qaeda della quale tutti, ad alti livelli e non, erano perfettamente a conoscenza. 



Non devo dire io cosa ha pensato la maggioranza di coloro che hanno ascoltato o letto queste parole, che sconfessano in pieno le dichiarazioni pre elettorali di Barack Obama, che prima mandava avanti Hillary Clinton come scudiera e portatrice della responsabilità di quella notte, e poi caricava tutto di nuovo sulle sue spalle, prendendosi carico della morte di Stevens. Un rimpallo al limite del patetico, oltre che gravissimo dal punto di vista politico, di cui Romney, anche oggi silente, non ha saputo e forse voluto approfittare. 

Ma facendo un passo indietro al febbraio del 2011, quando le rivolte arabe esplosero con fragore a Tunisi e poi al Cairo, possiamo apprezzare come la linea statunitense non si sia mai in realtà discostata da quanto accadde a Bengasi e come quella notte sia solo la conclusione di un percorso. In spregio al diritto internazionale, regola imprescindibile a cui tutte le potenze mondiali dovrebbero attenersi, gli Stati Uniti con in coda la Francia hanno sponsorizzato prima con la diplomazia e poi con le armi le pseudo-rivolte popolari nei Paesi arabi. A Tunisi Ben Ali ha pensato bene di darsela a gambe, lasciando dopo le pressioni americane tutto in mano a un governo di fantocci, prontamente rimpiazzato dall’estremismo organizzato. Idem al Cairo, dove la pressione americana, con la Clinton in testa a fare da alfiere della cacciata di Mubarak facendo sottintendere il rischio dell’intervento, ha fatto si che il potere andasse totalmente in mano alla Fratellanza musulmana, fra incarcerazioni sommarie di blogger e dissidenti, test di verginità per le giovani manifestanti e violenze di massa, celate dalla comunicazione mondiale. 



E fin qui tutto secondo i piani, con epurazioni brevi e sostanzialmente indolore, con l’estremismo che vince dovunque e dovunque impone regole liberticide per donne e intellettuali. Ma è in Libia che la faccenda si complica maledettamente, lasciando il campo all’organizzazione di un vero e proprio piano di invasione mascherato da intervento umanitario. La risoluzione Onu 1973/2011 sulla Libia, quella che per intenderci autorizzò la no-fly zone e consentì l’intervento militare a Tripoli, venne deliberata mentre le forze francesi erano già in viaggio verso la Libia. Mesi di battaglia, come testimoniato da fonti arabe e internazionali, non solo con mezzi aerei ma anche con forze di terra, in aperta violazione di una risoluzione già di per sé controversa. Dove Bengasi, ironia della sorte, è la città simbolo della lotta al dittatore. 

E arriva quel 20 ottobre 2011, quando Muammar Gheddafi muore. Sì, muore. Perché dire che è stato ucciso presupporrebbe sapere anche chi lo ha ucciso, mentre ad un anno intero da quel giorno ancora non è dato sapere chi premette il grilletto dell’arma che pose fine alla vita del Colonnello. I suoi presunti assassini muoiono uno dopo l’altro, in circostanze più che misteriose. Addirittura vanno a morire in Francia, mentre si rincorrono voci una più assurda dell’altra, secondo le quali addirittura Assad avrebbe venduto Gheddafi all’Occidente. Fatto sta che l’osso più duro fra i dittatori nordafricani muore senza un perché e senza un colpevole, portandosi appresso i segreti di tutti i leader americani ed europei degli ultimi trent’anni. E proseguendo la linea secondo la quale un certo sistema di rapporti fra Washington, Roma, Tripoli e Mosca va spezzato definitivamente.

Ultimo tassello, la Siria. Che da quando è stato tentato il primo assalto al regime di Assad ancora non cade, mantenendo salda la sbarra di ingresso al quadrante caucasico per gli estremisti salafiti che preparano il califfato globale, estendendolo mentalmente anche alle pendici degli Urali. Mentre il cerchio sta per chiudersi, accade l’irreparabile. Rieccoci a Bengasi, con l’assalto al Consolato e la morte di Stevens. Il film su Maometto, la protesta in tutto il mondo musulmano, le ambasciate messe a ferro e fuoco, i militari stranieri sui tetti delle sedi consolari. Dovunque, ma non a Bengasi, dove Stevens rimane praticamente solo con alcuni funzionari e ci rimette la pelle, mentre i segnali di soccorso e di supporto non arrivano mai a destinazione. La comunicazione tenta di aiutare Obama che però non riesce a spiegare perfettamente l’accaduto, di per sé talmente grave da essere foriero di dimissioni per ogni governante che abbia un minimo di senso dello Stato. 

 

Il sogno americano diventa incubo mondiale. Il silenzio delle potenze del Golfo, intente a dare unità alle forze di opposizione estremista siriane, il silenzio dei media, che non fiutano o forse non vogliono fiutare che in quella notte c’è la fine di un percorso e l’inizio di un altro, che oggi vediamo nel fuoco che si riaccende a Gaza e nei territori palestinesi, unico vero obiettivo di tutto questo trambusto, in un quadrante che era sì problematico ma rimaneva perlomeno stabile. Petraeus ha aperto una voragine, che però, nonostante tutto non porterà a nulla in termini di assunzione di responsabilità, come fu per l’Algeria e le sue centinaia di migliaia di morti ammazzati dal 1998 dai terroristi e dall’esercito, nel primo sanguinoso assaggio di primavera araba estremista. Il ricatto del gas è troppo forte e la paura del freddo troppo grande per poter chiedere verità sulle ombre di Algeri. 

Petraeus parla di Al Qaeda come esecutore materiale della morte di Stevens. Ora noi chiediamo a lui: chi è Al Qaeda? Qual è il suo volto? Di chi è strumento? Forse di un non tanto celato terrorismo ad orologeria? Oppure di qualche segreto meccanismo per il quale Osama Bin Laden giace in fondo al mare, assieme a tutte le sue verità, invece che alla sbarra di un tribunale internazionale? La sola cosa certa, e di questo mi prendo ogni responsabilità, è che Stevens aveva visto giusto nel sostenere l’ala moderata e liberale vincente in Libia. Qualcuno forse non ha gradito, perché gli accordi prima della morte di Gheddafi erano altri. Ad Algeri, lo ricordo ancora una volta con dolore, per accordi come questo le anime di donne e uomini liberi giacciono, ormai mute, laddove la voce non ha forza. Perché la paura, nel buio, vince sempre.

 

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