I bombardamenti sono finiti, ma cosa rimane? Mi ricordo dell’ultima volta che abbiamo visto questa violenza, solo quattro anni fa. Mi ricordo l’amarezza che ha lasciato dietro di sé. Allora io ero il parroco supplente di Nablus, una città del West Bank. Era sabato. Il giorno prima, alcuni razzi Qassam erano stati sparati da Gaza verso Israele e ora vi erano massici bombardamenti da parte degli israeliani. La piccola comunità cristiana del posto era così spaventata da non voler lasciare le proprie case, così, per la prima volta, io e le suore celebrammo la Santa Messa da soli.



La prima reazione della comunità cristiana fu di rabbia contro quelli che avevano sparato i razzi, mettendo tutti a repentaglio. Ma poi, quando centinaia, anzi più di un migliaio, di palestinesi morirono sotto i bombardamenti israeliani, con molte altre migliaia di feriti o mutilati, la loro rabbia si tramutò in sdegno contro Israele e in una dolorosa sensazione di completa impotenza che stringeva l’anima. Questo è, credo, ciò che è nell’animo del cristiano palestinese medio: impotenza, una sensazione logorante che induce alla disperazione. “C’è qualcuno che ci vede?” chiedono. Cosa la comunità cristiana palestinese spera che noi tutti si capisca? La loro sensazione di isolamento e impotenza.



Ricordo il periodo di attesa della visita del Papa nel 2009, proprio qualche mese dopo i bombardamenti su Gaza. Tra i cristiani c’era una forte opposizione a questa visita. “Cosa viene a fare? Condannerà quelli che li cacciano nel fango? Andrà a Gaza per mostrare al mondo le loro sofferenze?” La gioia causata dalla sua visita arrivò del tutto inaspettata, sollevando i loro visi a ricevere quella luce di speranza che sembrava essersi offuscata. Ma rieccoci ancora allo stesso punto e sono tentati di chiedere ancora: “Ci vedete? Siamo ancora qui, anche se minori di numero.” Sentono il mondo parlare di questo conflitto come del fronte nella lotta tra l’islam ideologico e l’Occidente liberale, ma loro non sono musulmani ma, come molti dei loro vicini musulmani, non vedono il conflitto come un più ampio scontro ideologico, ma come una questione di case, alberi, campi, famiglie e lavoro, cioè semplicemente di giustizia. Si chiedono se qualcun altro vede tutto questo.



Loro vorrebbero che da Gaza non partissero razzi. Ma poi vedono questi attrezzi sottili, rozzi, fatti in casa e con una forza limitata, presentati dalla stampa come giustificazione e assimilabili ai bombardamenti di artiglieria e agli attacchi con gli F 16 che fanno a pezzi i loro connazionali palestinesi, uomini, donne e bambini. Così smettono di criticare il lancio dei razzi. Sanno bene che vi sono azioni intraprese in nome dei palestinesi che loro non condividono, ma si sentono così impotenti che ogni dimostrazione di forza sembra essere di sollievo a questa loro sensazione paralizzante di vulnerabilità.

Questo atteggiamento mi riporta a ricordi personali. Essendo di costituzione più gracile rispetto ai miei cinque fratelli e specialmente rispetto al mio fratello maggiore, più robusto e prepotente, ho sempre pensato che per difendermi dovevo colpire più forte possibile. Sono dovuto diventare adulto per imparare finalmente a moderare la forza dei miei gesti. Forse i cristiani palestinesi ragionano nello stesso modo: non approvano, ma neppure condannano quelli che cercano di mordere il piede che li tiene a terra. Quando pensano alle tensioni politiche e alla occupazione militare, non vedono una lotta tra due antagonisti determinati ma alla pari. Vedono uno forte e grande con il suo piede sul collo di un altro piccolo e debole. Vedono attorno a sé una potente forza militare, la quarta nel mondo, mentre loro non hanno né Stato, né esercito, e una società divisa tra Hamas e Fatah, incapace di difendersi. Vedono il loro antagonista con una delle economie a più rapida crescita nel mondo, mentre  loro sopravvivono con i sussidi, impediti dal commerciare liberamente. Non vedono due popoli che vivono l’uno accanto all’altro, ciascuno con i suoi storici risentimenti, piuttosto vedono il loro piccolo pezzo di terra nel West Bank riempirsi sempre più di coloni, ora arrivati al numero di 600.000, rendendo impossibile il sogno di costruire il loro Paese in questa terra.  

Ascoltano gli israeliani che dicono di  sentirsi “circondati” da nemici, ma i cristiani palestinesi vedono Giordania ed Egitto, entrambi con un trattato di pace con Israele, e i cui confini rappresentano la maggior parte dei confini israeliani, che lavorano costantemente per garantire la sicurezza di Israele. E vedono la loro stessa Autorità Palestinese che imprigiona migliaia di loro connazionali per garantire la sicurezza di Israele. E chiedono disperati: “I nostri fratelli cristiani dell’Occidente vedono cosa realmente sta succedendo qui? Vedono noi?” Cosa fare, allora? Ripenso alla visita di Benedetto XVI nel maggio del 2009. Penso a quella gioia inaspettata tra i miei parrocchiani che, almeno per una volta, ha permesso loro di guardare avanti con meno paura e vedere possibili passi in avanti che non pensavano esistessero. Penso che ciò che ci vuole per risvegliare cuori inaspriti sia una voce che dice: “Non abbiate paura, perché io sono con voi. Vi vedo e vi amo.” Prego di poter contribuire a questa voce, prego perché lo facciamo tutti.

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