Solo tra qualche mese, a marzo o ad aprile del prossimo anno, sapremo i risultati definitivi delle analisi sui resti del corpo di Arafat. Dietro grandi teli blu, che avvolgevano il suo mausoleo Ramallah, per tre ore la tomba di Arafat è stata trasformata in un provvisorio laboratorio medico. I campioni estratti dal corpo sono stati lì catalogati, per essere poi inviati nei laboratori di analisi in Svizzera, Francia e Russia. Tre diversi luoghi, dai quali si attende una risposta univoca a quanto l’indagine della televisione Al Jazeera ha rivelato. Sugli indumenti e sugli oggetti personali di Arafat, che la moglie Suha aveva consegnato ai giornalisti di Al Jazeera, i ricercatori dell’Università di Losanna in Svizzera avevano infatti ritrovato tracce di un micidiale materiale radioattivo il Polonio 210. Già usato dai servizi segreti russi per avvelenare ed uccidere a Londra una spia del Kgb che aveva disertato. Insomma, nulla di fantascientifico, ma invece uno strumento per uccidere già utilizzato. Le rivelazioni di Al Jazeera hanno provocato, nei mesi scorsi, un terremoto nell’opinione pubblica palestinese e più in generale araba. E’ divenuto insopportabile per i leader palestinesi il sospetto della gente, di essere complici di una verità nascosta, perché pesante da gestire politicamente.
Nelle strade di Ramallah ieri c’era un misto di pietà e di orgoglio. Si, anche pietà per i poveri resti di Arafat, riesumati, utilizzati per estrarne dei campioni, e poi nuovamente rinchiusi nella sua tomba. Non c’è alcuno che non abbia detto ieri che tutto ciò era, innanzitutto, penoso per i palestinesi. Nel contempo, c’era l’orgoglio di essere persone con il diritto di sapere la verità. Di conoscere se Arafat è stato ucciso, di sapere se veramente gli israeliani hanno una responsabilità nella sua morte e se ci sono palestinesi che hanno collaborato alla sua, non ancora, accertata uccisione.
In un altro periodo, forse, il peso di questa ipotesi avrebbe spinto ad insabbiare tutto. E forse così è stato nel novembre del 2004. Oggi, però, l’opinione pubblica palestinese è diversa e non è più, in maggioranza, succube dei suoi leader. Qualcuno, che non conosce il mondo arabo, potrebbe sorridere davanti all’affermazione che la primavera araba ha avuto anche questa conseguenza. Ed invece è accaduto anche questo nei territori palestinesi. Una consapevolezza, soprattutto tra i giovani, che non si è più persone da trascinare per mano da Fatah, Hamas o da qualche altro partito o feudatario del potere locale.
Mentre per anni c’era il sospetto sugli israeliani e su qualche palestinese vicino ad Arafat, oggi c’è la volontà di sapere. Qualcuno, in strada, si spinge a dire che tutto dovrebbe essere esaminato dal Tribunale penale internazionale, quello che si trova all’ Aja in Olanda, quello che processa ( ma anche assolve talvolta) chi è accusato di crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Una richiesta che è stata anche rilanciata, anche dal capo della commissione di indagine palestinese Tirawi e gente comune comprendono che i palestinesi sono troppo deboli per portare la ricerca della verità fino in fondo.
D’altra parte, la Palestina bussa in queste ore nuovamente, alle porte delle Nazioni Unite, per entrarvi come stato osservatore. Era già accaduto l’anno scorso e l’obiettivo era più ambizioso, quello di nazione membro dell’Onu a pieno titolo. Richiesta bloccata dagli Stati Uniti, su richiesta di Israele, timorosa di dover riconoscere anche Gerusalemme est capitale dello stato palestinese ed i vecchi confini del ’67. Adesso Abu Mazen ripropone una richiesta analoga, ma diplomaticamente meno ambiziosa. Lo fa, e non è una differenza da poco rispetto ad un anno fa, con il consenso di Hamas.
La comunità internazionale dopo l’ultima guerra di Gaza è chiamata a prendere coscienza dei cambiamenti in Medio Oriente e che è tempo di dare delle risposte politiche nuove rispetto al passato.