La campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti è entrata nell’ultima settimana e gli americani il 6 novembre sceglieranno chi guiderà il Paese per i prossimi quattro anni. Come d’altra parte gli europei, gli americani sono focalizzati sulla situazione economica quando pensano al prossimo voto. La politica estera domina raramente la campagna per le elezioni del presidente e, quando ciò avviene, è spesso per denunciare i fallimenti, come per la Corea, il Vietnam o l’Iraq. Questi fallimenti possono rappresentare seri ostacoli per la rielezione del presidente in carica, o per il suo partito, ma sarebbe insolito che la politica estera fosse il motivo principale del successo di un candidato alla Casa Bianca.



Gli americani tendono a dare per scontati la forza del Paese e la sicurezza nazionale. Per gran parte della loro storia, e certamente nei decenni passati, le minacce alla sicurezza venivano affrontate lontano dagli Stati Uniti. Anche gran parte delle risposte all’11 settembre hanno avuto luogo lontano dal territorio statunitense, pur dovendo gli americani subire i disagi dei rigorosi controlli, per esempio negli aeroporti, e i ripetuti allarmi per possibili nuovi attentati. Nel dopoguerra, i Repubblicani hanno tratto i maggiori vantaggi da questa situazione, perché ritenuti più affidabili in queste complicate questioni, ma le cose sono ora cambiate sotto almeno tre aspetti.



Innanzitutto, le guerre in Afghanistan e Iraq hanno appannato la reputazione dei Repubblicani di saper trattare in modo efficiente la sicurezza nazionale e hanno reso gli americani diffidenti verso le operazioni all’estero. In secondo luogo, di fronte all’aumento del debito pubblico, che supera ora il 100% del Pil, gli americani si pongono la domanda di quale sia il prezzo che pagano per mantenere la leadership mondiale, nel momento in cui vi sono ingenti bisogni a casa propria. Obama si riferiva a questo quando ha detto: “è tempo di concentrarsi sulla costruzione della nazione qui a casa”. Infine, gli americani vedono il sorgere di altre potenze, quali la Cina, combinate con nuove minacce difficili da capire e da combattere: il terrorismo islamico, piuttosto che la minaccia “cyber”, che potrebbe portare a devastanti sorprese in qualsiasi momento, come ha avvertito il Segretario alla Difesa, Leon Panetta. Quindi, gli americani non hanno chiaro quale sia il ruolo della loro nazione, né da dove possano venire i pericoli per gli anni a venire. 



Tutto ciò lascia gli americani a disagio, ma non tanto da fargli dimenticare l’economia, dove i segnali non sono univoci, per la disoccupazione, il mercato immobiliare, l’industria e i servizi. E sullo sfondo c’è il “fiscal cliff”, cioè il possibile aumento delle tasse e l’obbligo di tagliare la spesa dall’inizio del 2013, a meno che vengano prese opportune azioni prima di allora. L’economia rimane la questione centrale, ma la fine della Guerra in Iraq e il ritiro dall’Afghanistan, dopo l’uccisione di Bin Laden, sono state ben accolte dalla maggioranza degli americani.  

Tuttavia, alcune scelte di Obama hanno dato a Romney l’opportunità di criticarlo sulla politica estera, come ad esempio sulla riluttanza del Presidente a riconoscere la “eccezionalità americana”, che ha urtato molti americani o sulla sua tendenza a scusarsi per quelli che considera fallimenti all’estero degli Usa, attribuibili alla precedente amministrazione.

Dall’altro lato, il suo affidarsi a un programma esteso di “guerra con i droni” e il mantenimento di quasi tutti gli aspetti della “guerra al terrore” del suo predecessore, Guantanamo compresa, hanno irritato molti dei suoi stessi sostenitori. I fatti di Bengasi, con l’uccisione in Libia dell’ambasciatore e di altri tre americani, e una certa confusione nella comunicazione su questi avvenimenti, hanno posto qualche dubbio sugli effettivi successi nella lotta contro Al Qaeda. Anche l’atteggiamento nei confronti di Israele non è del tutto chiaro e il “fuori onda” della scorsa primavera in cui chiedeva al presidente russo Medvedev tempo fino al dopo elezioni, come pure le rivelazioni, poi smentite, di colloqui bilaterali con l’Iran, non hanno contribuito a fare chiarezza sulle sue intenzioni.

Fondamentalmente, molti americani considerano Obama riluttante di fronte a un ruolo di leadership all’estero; la ragione può essere la preoccupazione dei costi, o la priorità data al suo programma di cambiare il Paese (come con la riforma sanitaria), o perché personalmente rifiuta la legittimità di una leadership americana. Un esponente dell’amministrazione, nel caso della Libia, ha definito questo atteggiamento come “leadership da dietro”, ma in altri casi il presidente è stato accusato di inazione, come per le proteste del 2009 in Iran, o per la Siria. I critici di Obama sostengono che così si permetteranno ulteriori disordini che alla fine favoriranno gli avversari degli Stati Uniti.

In conclusione, nella campagna del 2012, la politica estera gioca nella elezione del presidente un ruolo visibile, ma non primario. Obama e Romney sembrano offrire concezioni sostanzialmente diverse del ruolo nel mondo degli Stati Uniti e delle loro responsabilità, ma queste differenze sono meno importanti del decidere quale dei due possa più probabilmente riportare la prosperità e risolvere il problema del massiccio debito pubblico, mantenendo il livello dei servizi offerti dallo Stato, come ormai molti americani richiedono. 

Questa elezione sembra, tuttavia, rappresentare un momento chiave che va oltre economia e affari esteri, perché la paralisi della politica americana è evidente, in superficie, dalle differenze politiche e dalla incapacità di risolverle. Ma questo riflette un conflitto molto più profondo su questioni fondamentali: la natura della persona, l’esistenza di principi universali, di una legge naturale che deve ultimamente guidare il dibattito sulle politiche, o se invece siamo liberi di decidere su tutto come individui autonomi, se la politica deve rispondere solo alle attuali esigenze dell’elettorato, se ciò che conta è il risultato e la forza di ottenere ciò che uno cerca.

Molti americani sentono che vi sono queste domande più profonde dietro il flusso di annunci pubblicitari elettorali e la valanga di notizie e commenti, ma non sanno bene come articolare le risposte e sono meno sicuri delle precedenti generazioni di cosa dovrebbero essere queste risposte fondamentali. Senza un consenso generale su queste domande, il successo in economia o in politica estera sarebbe ancor più evanescente che nel passato.

Queste domande sono la vera storia di queste elezioni e lo rimarranno anche per il futuro, non importa chi vincerà.