Nel volantino “Una chiamata a ricostruire da capo”, distribuito da Comunione e Liberazione in Usa alla vigilia dell’appuntamento elettorale, si legge: “Non crediamo che il miglioramento della situazione nel nostro paese possa giungere dalla sola politica. Piuttosto, pensiamo che l’America abbia bisogno di un impegno rinnovato da parte di singoli e associazioni per il perseguimento dei più nobili ideali umani con realismo e capacità di sacrificio. [… ] Questo compito è di ciascuno di noi, e ne siamo pienamente responsabili”.
Un piccolo gruppo di medici, infermieri a studenti ha preso sul serio questa chiamata alla responsabilità e ha lavorato, nel corso degli ultimi 4 anni, alla costruzione di una medicina incentrata sulla persona.I risultati di questo lavoro vengono presentati annualmente alla MedConference, una conferenza medica di tre giorni organizzata dall’American Association of Medicine and the Person a New York.
“Cosa ci spinge a prenderci cura degli altri?” questa è la sfida posta ai relatori nell’edizione 2012 della MedConference.Elvira Parravicini rivolge queste parole ai partecipanti, tra cui medici, ricercatori, infermiere e studenti di medicina e di scienze infermieristiche, provenienti da tutti gli Stati Uniti e dal Canada, il venerdì sera, all’inizio della conferenza. “Il bisogno di incontrarsi e parlare di questa questione viene dal riconoscimento che abbiamo bisogno di riguadagnare continuamente il desiderio originale che ci aveva spinto ad entrare nella professione medica. Tale desiderio era molto chiaro all’inizio della nostra carriera, ma può essere facilmente smarrito nel tempo che passa”.
Cosa ispira e sostiene questi professionisti che si dedicano agli altri?I protagonisti della 2012 MedConference sono professionisti con ruoli diversi nel campo medico, ma che sono stati invitati a parlare delle ragioni del loro prendersi cura di persone che soffrono.
Alberto Costa è un professore associato di Medicina e Neuroscienza alla Facoltà di Medicina dell’Università del Colorado. Costa ha lavorato per più di 15 anni sulla patofisiologia e potenziale approccio terapeutico per persone affette da sindrome di Down. Alla domanda “Cosa ti spinge a prenderti cura dei tuoi pazienti?” risponde “[Di fronte alla mia bimba appena nata e diagnosticata con la syndrome di Down] l’unica cosa che potevo pensare era che lei è mia figlia, lei è una bambina adorabile, cosa posso fare per lei? Io sono un medico ricercatore che studia il cervello. Avevo di fronte a me questa nuova vita, che mi stringeva il dito con le sue ditine e mi guardava fisso negli occhi. Come potevo non pensare a come aiutarla?” Per questa ragione Costa decise di cambiare completamente il suo campo di ricerca e dedicarsi allo studio della sindrome di Down. Cominciò a lavorare con un modello animale (topo affetto da una condizione simile alla sindrome di Down) studiando in particolare l’ippocampo, una struttura del cervello essenziale per la memoria e l’orientamento nello spazio. Infatti, le persone affette dalla sindrome di Down sembrano avere problemi cognitivi secondari ad una crescita troppo lenta delle cellule dell’ippocampo. Costa ha pubblicato nel 2006 dei risultati che dimostrano l’efficacia di una particolare medicina nel normalizzare la crescita delle cellule ipoocampali su questi topi. Più recentemente Costa ha completato uno studio randomizzato su pazienti con la sindrome di Down per dimostrare gli effetti positivi di tale medicina.
Il dottor Daniel Sulmasy è professore di Medicina ed Etica all’Università di Chicago. Ha affrontato uno dei problemi più scottanti e attuali nella pratica medica, il problema della libertà di coscienza nel rapporto medico-pazienete. Ci ha raccontato un caso clinico. “Ritengo che ci siano certe cose che non siano di beneficio per i pazienti, anche se richieste da loro. Mi sono preso cura della produttrice di uno programma televisivo notturno. Venne da me chiedendomi pastiglie per l’insonnia. Ho indagato un pò e vengo a scoprire che, non solo lei non dorme di notte perchè ha turni lavorativi notturni, ma che il suo fidanzato, che lavora di giorno, vive in Irlanda, per cui questa paziente, che vive a New York, viaggia in continuazione tra America e Europa, con differenze significative di fuso orario. Alla visita la trovai molto ansiosa e preoccupata e le chiesi di prendere in considerazione la possibilità che la causa del suo problema col sonno fosse piu riferibile al suo stile di vita, che non ad una patologia da trattare con dei farmaci. Lei si arrabbiò e lasciò immediatamente il mio studio. Ma io continuo a pensare che il mio dovere come medico è di scandagliare la ragione di certe possibili patologie e non di prescivere al paziente tutto quello che mi chiede.” Il dottor Sulmasy ritiene che la professione di medico include fare tutto il possible per il benessere del paziente, ma anche operare ad un livello che rispetti la professionalità.
Princy Abraham, una giovane infermiera che lavora nella Unità Intensiva Neonatale al Cohen’s Children’s Medical Center a New York, ci ha parlato dello sconvolgimento della sua professionalità dopo la nascita e morte prematura di suo figlio Aaron. Princy definisce l’inizio della sua carriera come quella di tante altre infermiere. “Il mio valore era definito dalla mia competenza, più che dalla capacità di essere simpatetica col paziente e la sua famiglia. Ero completamente desensitivizzata di fronte alla sofferenza. Non ero di fatto un’infermiera completa, perché il mio solo ‘goal’ era la competenza e non avevo interesse nel lato emozionale nel rapporto col paziente”. Nel Febbraio 2011 Princy ha partorito un bimbo di appena 25 settimane, da subito in gravissime condizioni. Questo avvenimento drammatico sconvolge la sua professionalità. “Improvvisamente ho percepito in me l’angoscia che avevo visto in passato nei genitori dei bimbi che curavo. Fino a quel punto ero stata solo un’operatrice sanitaria, ora diventavo una mamma con un bimbo in condizioni critiche. […] Ho imparato a guardare ad ognuna di quelle piccole vite per la loro bellezza, non importa quanto durassero”.
Philene (Bean) Cromwell ha lavorato per moltissimi anni come ‘nurse practitioner’ nella cura palliativa pediatrica ed ora dirige un programma di cure palliative, ‘Compassion-net’ per bambini nelle stato di New York. Bean dice ai partecipanti: “Cosa mi spinge a prendermi cura dei miei pazienti? Si dice che alcuni decidono di entrare nella professione medica per curare sé stessi e questo è probabilmente vero per me. Io penso che ci siano molte cose che mi spingono a prendermi cura di altri: la passione e la compassione, il privilegio di essere in un posto sacro col paziente […] è il privilegio e l’arte di essere presente, il potere assoluto della gentilezza, l’anatomia della speranza, ed è sempre ‘un bambino alla volta”.
Racconta una delle moltissime storie che ha vissuto in prima persona. Jennifer è una ragazzina affetta da carcinoma osteogenico metastatizzato. Quando Bean va a visitarla, la trova già in condizioni terminali. Cosa si può fare a quel punto? Bean si ricorda il suggerimento di una sua insegnante di scuola e chiede a Jennifer “Se ti chiedessi quali sono i tuoi tre desideri più importanti, cosa diresti?” Jennifer aveva un desiderio grandissimo, rivedere suo fratello David, che era lontanissimo in un campo dell’esercito. Con l’aiuto di molte persone riescono a farlo tornare e Jennifer può abbracciare suo fratello per l’ultima volta. Dopo alcuni giorni Bean visita Jennifer e la trova in uno stato di agitazione: nonostante la morfina, continua a ripetere, “David sta tornando a casa, David sta tornando a casa”. Lo stava aspettando un’ultima volta ancora. Bean è stata così presente in quella famiglia che la mamma di Jennifer le suggerisce di dirle la verità. Alla notizia data da Bean che il fratello non stava tornando, “Jennifer guardò la mamma e mori dopo 30 secondi, è stato bellissimo”.
Queste esperienze concrete di professionisti reali dimostrano che è possible costruire una medicina rinnovata, una medicina centrata sull’importanza di essere presente e vicini ad ogni paziente in ogni aspetto della loro vita. Elvira Parravicini conclude così la conferenza: “Ognuno dei nostri pazienti non è un ‘caso clinico’, una ‘diagnosi’ o una ‘sindrome’, ma è un paziente, una persona, di fronte a noi. E se questa persona è qui e ora di fronte a noi, se questa persona perciò esiste, la sua vita è data e ha una direzione, un inizio ed una fine che non può essere controllata o manipolata, piuttosto deve essere servita verso il suo compimento. Perciò essere un professionista in medicina significa usare tutta la conoscenza medica, e l’esperienza per curare, guarire, salvare la vita di ognuno dei nostri pazienti, secondo una direzione che è data”.
Il volantino elettorale sottolinea un punto essenziale per la costruzione di una società umana, “Il desiderio di qualcosa di più bello, di un bene più grande, di una vita più piena è ciò che esprime la natura di ogni singola persona e che guida ogni autentico progresso umano”. Questa è la forza trainante della MedConference.