E così aveva ragione Nate Silver. Ha vinto Obama, con un’affermazione ampia nel numero di grandi elettori (332 a 206), ma meno netta nel voto popolare (due punti e mezzo in percentuale). Un risultato straordinario, perché non era assolutamente scontata la rielezione di un presidente che ha dovuto affrontare la più grave crisi americana dal ‘29 a oggi. È stata una grande vittoria anche per altri due motivi.



Il primo è che è stato rieletto un presidente nero: spesso, una volta abbattuto un muro, pensiamo che il lavoro sia finito. Ma non è così, se guardiamo i dati elettorali: Romney ha avuto più di 20 punti di vantaggio tra gli elettori bianchi, Obama ha avuto percentuali bulgare da afroamericani e latinos. E le immagini di Obama bruciate in Missisippi all’annuncio della sua riconferma sono la testimonianza che quello dell’integrazione è un percorso ancora in itinere.



Il secondo è la natura delle scelte di Obama, che in questi anni ha fatto riforme che, pur annacquate da un Congresso ostile, andavano in una direzione chiara (dividendo l’opinione pubblica americana). Riforma della sanità, della scuola pubblica, incentivi alla green economy, misure di regolazione per Wall Street. Tanto che qui le principali accuse a Obama erano due: essere un socialista e un europeo. Oppure le due cose assieme, usando il secondo come aggettivo. Obama ha tirato dritto in campagna elettorale, difendendo le sue scelte. Anzi, nel bellissimo discorso della vittoria, pronunciato a Chicago, ha rivendicato tutte le decisioni più importanti del suo mandato. Un passaggio, in particolare, ha scaldato la platea: quello dedicato a una bambina dell’Ohio malata di leucemia, cui l’assicurazione sanitaria aveva smesso di pagare i premi e che potrà essere curata solo grazie all’Obamacare.



Obama ha vinto in tutti gli undici stati in bilico, salvo il North Carolina. Due li ha vinti sul filo, Florida e Virginia, gli altri con un margine più o meno rassicurante. Rispetto al 2008 perde solo l’Indiana e la North Carolina: in quasi tutti i gli Stati il Presidente uscente è andato ampiamente meglio che nei sondaggi della vigilia. Tra le motivazioni ce n’è una che senza dubbio ha pesato molto: la differenza delle due macchine organizzative. Lo aveva detto Axelroad, lo stratega di Obama, ancora un paio di settimane fa: per noi essere pari con Romney nei sondaggi va benissimo, perché nel corpo a corpo dell’ultima settimana la forza dei volontari obamiani emergerà.

Così è stato: l’affluenza, pur più bassa che nel 2008, è alta per gli standard americani (attorno al 58%). Ciò che colpisce è che negli stati in bilico è mediamente tra gli 8 e i 10 punti superiore, frutto del lavoro dei volontari dei due candidati. E, soprattutto, vede un’elevata partecipazione delle minoranze: afroamericani, latini, asiatici. Ed è proprio questa la notizia: probabilmente dovremmo smetterla di chiamarle minoranze. I latinos iniziano a essere decisivi ai fini delle elezioni: come racconta il Washington Post, ben il 10% dei votanti alle elezioni del 6 novembre erano di origine ispanica. Ed era proprio su afroamericani e ispanici che si era concentrato in questi ultimi giorni il lavoro dei volontari di Obama: i primi hanno votato Obama nell’86% dei casi, i secondi nel 73%.

Questo fattore tra l’altro costringe i repubblicani a una riflessione profonda: se non riescono a intercettare il voto anche delle altre etnie, oltre che dei nativi americani, sono destinati a diventare strutturalmente minoritari. Quindi aspettiamoci un riposizionamento politico del partito dell’elefantino nei prossimi quattro anni.

L’ho potuta capire fino in fondo solo l’ultimo giorno, tutta la forza di Organizing for America. Tutta la giornata del voto è stata dedicata alla ricerca degli elettori che non erano ancora andati a votare, bussando alle porte o telefonandogli. Il tutto con una meticolosità e una determinazione impressionante: fino alle otto meno dieci di sera eravamo tutti in strada per provare a portare gli ultimi recalcitranti ai seggi. Una testimonianza di un’altra delle grandi contraddizioni di questo Paese. Una realtà in cui, per motivi incomprensibili, da un lato si rende impossibile la vita al cittadino elettore, dall’altra lo si tormenta per settimane per convincerlo ad andare al seggio.

È dura votare negli Stati Uniti, in primis perché ogni Stato ha le sue regole. E qui la gente si trasferisce da uno Stato all’altro in continuazione. Ci sono luoghi in cui si può votare nelle settimane precedenti al voto (gli early voters), altri in cui si può esprimere la preferenza prima per impegni di lavoro (absenty ballot), altri ancora in cui puoi farlo per posta. C’e poi il sistema della registrazione, che spesso porta a difficoltà oggettive: persone che cambiano residenza e non comunicano il nuovo indirizzo, confusione nell’assegnazione ai seggi, cittadini che si recano alle urne e che scoprono di non poter votare. Senza contare quella che è l’assurdità principale: il giorno delle elezioni è lavorativo, il primo martedì di novembre. E qui ai seggi ci sono anche code di quattro ore: per molti diventa chiaramente impossibile.

Ora Obama ha davanti quattro anni molto complicati: i democrats hanno mantenuto la maggioranza al Senato, ma continuano a essere minoranza alla Camera. Questo significa che tutti i grandi passaggi dovranno essere concertati con i repubblicani, come ha di fatto ammesso Obama nel discorso di Chicago. Obama ha però un grande vantaggio rispetto agli ultimi due anni (perse la maggioranza al Congresso nelle elezioni di midterm del 2010): non ha più nulla da perdere, visto che tra quattro anni non ci sarà più.

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