L’opposizione anti-Assad è “l’unica legittima rappresentante” della Siria in sede internazionale. E’ quanto emerge dalla dichiarazione al termine del vertice di Marrakesh, sottoscritta dagli Stati Uniti e dalla stessa Italia. Pieno riconoscimento diplomatico quindi, ma nessuna fornitura diretta di armi ai ribelli. Un passo verso la democrazia, ma nello stesso tempo una mossa nell’enorme scontro di potere tra Arabia Saudita e Iran rispetto a cui la Siria è soltanto una pedina. Ilsussidiario.net ha intervistato Maurizio Molinari, corrispondente de La Stampa dagli Stati Uniti.



Quali sono le proposte che gli Stati Uniti presenteranno nel corso della riunione dei Paesi “Amici del popolo siriano” a Marrakesh in Marocco?

Il momento chiave a Marrakesh sarà il riconoscimento delle forze dell’opposizione come legittimo rappresentante della Siria. E’ lo stesso passaggio che avvenne in Libia, ai tempi della rivolta contro Gheddafi, e può portare in eguale maniera ad un aumento del sostegno internazionale ai ribelli. Per questo la decisione di Marrakesh è stata preceduta dall’inclusione dei gruppi salafiti-jihadisti siriani nella lista delle organizzazioni terroristiche. Siamo alla vigilia di un’accelerazione nel sostegno ai ribelli e Washington non vuole che i nuovi, massicci aiuti, finiscano nelle mani errate.



Potrà trattarsi anche di aiuti di tipo militare?

Non credo che l’amministrazione Obama rivedrà la decisione di non fornire direttamente armi ai ribelli. E’ però vero che, attraverso Qatar e Arabia Saudita, stanno arrivando ai ribelli armamenti più efficaci. A cominciare dai missili antiaerei tipo-Stinger che stanno ostacolando l’impiego di aerei ed elicotteri da parte delle forze del regime. E’ questo il motivo per cui Assad ha iniziato a usare gli Scud contro i ribelli. Gli aerei rischiano di essere abbattuti.

Dall’inizio degli scontri i ribelli avrebbero commesso diverse atrocità. Per quale motivo Obama è comunque pronto a riconoscere i gruppi di opposizione come rappresentanti legittimi della Siria?



Se per “atrocità” si intendono attacchi ai civili, autobombe ed esecuzioni di prigionieri si tratta di episodi che vengono attribuiti alle componenti jihadiste e salafite della rivolte, ovvero le stesse che l’amministrazione Obama ha incluso nella lista nera dei gruppi terroristi.

Secondo diverse fonti la soluzione cui starebbero pensando gli Stati Uniti sarebbe quella di dividere la Siria in più parti, lasciando la costa agli alawiti, il nord ai curdi e il resto ai sunniti. Ritiene che davvero gli Usa stiano lavorando a questo progetto?

No, non lo credo. Il Segretario di Stato Hillary Clinton e l’ambasciatore Usa all’Onu, Susan Rice, in più occasioni hanno sottolineato la necessità di mantenere l’unità nazionale siriana. E’ una posizione americana che punta a raccogliere il sostegno di Mosca – l’alleato più importante del regime di Assad – ed anche a rassicurare le etnie minoritarie, dagli alawiti ai curdi fino ai cristiani, che più temono l’avvento dei sunniti. La disintegrazione della Siria è lo scenario peggiore per Washington perché rischierebbe di innescare un domino di crisi-regionali, a cominciare dalla contrarietà di Ankara a un’indipendenza di fatto dei curdi siriani. E’ invece il regime di Assad a paventare tale scenario, per far valere il fatto di essere l’unico a riuscire a tenere unito il Paese. Ma i fatti sul terreno dimostrano che questo non è più vero. Perfino l’inviato russo in Siria, Mikhail Bogdanov, ammette che Assad sta perdendo progressivamente il controllo sul territorio e potrebbe cadere.

 

Ritiene che in Siria esista un rischio simile a quanto avvenuto nella guerra russo-afghana, quando su proposta del senatore Charlie Wilson gli Usa distribuirono armamenti ad Al Qaeda?

 

Gli Usa non hanno mai distribuito armi ad Al Qaeda. Washington durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan fornì armi ai mujaheddin dai quali, in seguito, si originò il gruppo di Osama bin Laden che formò Al Qaeda. Se la domanda riguarda il rischio che armi americane cadano in mano a gruppi jihadisti questo è proprio ciò che il “New York Times” ha rivelato nei giorni scorsi, chiamando in causa l’Emirato del Qatar. Sarebbero state infatti armi “made in Usa” fornite al Qatar ad essere poi rinvenute nelle mani di fazioni jihadiste siriane. Credo che questo sia un altro dei motivi che hanno portato all’inserimento di questi gruppi nella lista nera. Più in generale c’è un problema strategico che riguarda i legami fra le monarchie sunnite del Golfo – a cominciare da Arabia Saudita e Qatar – con gli estremisti sunniti, di cui i salafiti sono al momento l’espressione più agguerrita e pericolosa.

 

Dopo gli allarmi su un possibile utilizzo di armi chimiche da parte di Assad, Panetta ha fortemente ridimensionato il pericolo. Qual è il significato politico di questo gioco di annunci e smentite che ricorda quanto avvenne ai tempi di Saddam?

 

In Siria i satelliti americani hanno osservato lo spostamento di gas sarin, che è stato caricato su bombe aree. E’ stata la minaccia americana di attaccare la Siria a spingere Assad a bloccare un possibile attacco contro la popolazione civile, consentendo al capo del Pentagono di usare toni più rassicuranti. Ma l’allarme resta alto. Le informazioni di intelligence americane sono state condivise con gli alleati della Nato, con la Russia e con i Paesi che confinano con la Siria. Non devono esserci dubbi sul fatto che Obama autorizzerà l’attacco alla Siria un minuto prima dell’uso dei gas da parte di Assad contro la popolazione civile. L’unico richiamo possibile all’Iraq di Saddam Hussein, in tale cornice, può essere nel ricordare che all’immediata vigilia dell’attacco americano, nel marzo 2003, l’allora premier israeliano Ariel Sharon disse che Baghdad aveva spostato le proprie armi proibite in Siria. Vi è stato in effetti un consistente aumento degli arsenali non convenzionali siriani negli ultimi anni ma la prova certa di quanto disse Ariel Sharon ancora manca.

 

Nella posizione Usa contro Assad, quanto pesa la volontà di far cadere il principale alleato dell’Iran in Medio Oriente?

L’Iran è l’avversario strategico degli Stati Uniti in Medio Oriente a causa del suo programma nucleare – di cui l’Agenzia atomica dell’Onu sospetta la natura militare – del sostegno alle organizzazioni terroristiche sciite e delle ripetute dichiarazioni contrarie all’esistenza dello Stato di Israele. Chi più spinge l’America al confronto con l’Iran sono i Paesi arabi sunniti che vedono nel programma nucleare di Teheran il volano di una possibile egemonia sciita sull’intero Medio Oriente. E’ uno scenario avvalorato dal sostegno iraniano per i gruppi ribelli sciiti, dall’Arabia Saudita al Bahrein fino allo Yemen. Non a caso sono gli stessi Paesi arabi sunniti a sostenere la rivolta anti-Assad ovvero il tentativo di rovesciare l’alleato arabo più importante per la Repubblica islamica. Se Assad dovesse cadere Teheran perderebbe soprattutto l’alleato strategico nella partita in atto per assicurarsi il controllo del Libano, dove il partito sciita filoiraniano Hezbollah ha i suoi più agguerriti avversari nel fronte sunnita sostenuto dall’Arabia Saudita. Sono questi motivi che fanno apparire la guerra civile in Siria come un conflitto per procura fra Riad e Teheran. Nel quale Washington è alleata di Riad.

 

Gli Usa appoggiano le opposizioni siriane destinate prima o poi a prevalere su Assad e sostengono i Fratelli musulmani usciti vincitori in Egitto. Fino a che punto, dietro la difesa della democrazia, si nasconde la realpolitik Usa?

 

La politica estera americana, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, vede sovrapporsi realpolitik e sostegno a chi si batte per la democrazia. Sono due approcci spesso in contraddizione ma riflettono le due vocazioni degli Stati Uniti: quella che si origina dalla Costituzione nella quale si definisce un diritto naturale di “ognuno” – americano o meno – alla libertà e l’altra, legata alla necessità di proteggere gli interessi concreti della maggiore potenza del Pianeta. Nel caso specifico del sostegno alla Primavera araba, l’amministrazione Obama ha ripetuto questo duplice approccio dicendosi da un lato a favore dei partiti islamici moderati, dalla Tunisia all’Egitto, perché espressione della volontà popolare ma dall’altro facendo attenzione a non entrare mai in contrasto con gli interessi nazionali americani, come dimostra la perdurante volontà di non intervenire militarmente in Siria a dispetto di un bagno di sangue che ha già superato le 40 mila vittime.

 

(Pietro Vernizzi)